30 set 2012

Le cose accadono


Incontro frequentemente una incrollabile fede nella possibilità di decidere del proprio destino. Nonché nella dipendenza degli effetti prodotti dalle intenzioni dichiarate.
Tendo tuttavia sempre più a dubitarne. Ciò sulla base di studi di neurologia, di psicologia sociale, di etologia, di psicoanalisi, come pure di semplice osservazione.
Oggi mi piace l'idea di prendere spunto da una situazione personale che è al contempo universale - poiché più o meno da tutti prima o poi vissuta - ed è pertinente a questa supposta capacità di costruirsi liberamente quanto incontriamo sulla base di etichette affibbiate alle nostre e alle altrui intenzioni.

In alcuni periodi della mia vita, pur desiderando situazioni sentimentali, non ho desiderato una storia "seria". In questo periodo invece l'obiettivo di costruire una relazione stabile mi appare più intenso degli aspetti positivi offerti da altri tipi di relazioni. Cambia pertanto l'intenzione professata a me stesso e agli altri. Questo è lo spunto.
Da qui generalizzo i due atteggiamenti e domando: malgrado ci siano delle differenze tra queste due intenzioni apparentemente antitetiche, e spesso giudicate così rilevanti, siamo certi che ci siano differenze sugli effetti prodotti?

Nei fatti, in entrambi i casi, si tratta innanzitutto di conoscere qualcuno per cui si provi quantomeno una basilare attrazione sessuale. Si tratta poi di frequentarsi, di "provarsi", di conoscere le possibili modalità di interazione relazionale. È da tale conoscenza che nasce, o meno, la disponibilità ad impegnarsi in una relazione importante. Non nasce dall'intenzione iniziale. Poiché, quale che essa sia, se l'interazione risulta per noi soddisfacente proseguirà il nostro impegno in essa, viceversa non lo farà (o lo farà solo stentatamente e provvisoriamente), a dispetto di quale fosse l'intenzione dichiarata inizialmente.

La differenza prodotta dall'intenzione non risiede nella probabilità di successo con una specifica persona ma potrebbe - ed in effetti spesso così accade - risiedere nella selezione dei possibili partner. Il primo elemento usualmente considerato è per l'appunto la "serietà" dell'intenzione, generando così quel curioso effetto ricorsivo, non appena dimostrato fallace.
Gli altri filtri apposti possono essere estetici, di età, di professione di segno zodiacale o quant'altro. Solitamente si restringe la ricerca a quei pochi parametri che in passato già non hanno funzionato meravigliandosi che continuano a non funzionare.... Parafrasando Einstein a volte varrebbe forse la pena di adottare posizioni più aperte.
L'ansia da controllo ci spinge a ricercare elementi da cui inferire pronostici certi, incuranti che alla prova dei fatti si dimostrino sicuri più o meno quanto una scelta random. Con l'aggravante tuttavia, rispetto ad una scelta su base più aperta, di avere drasticamente ridotto il campione da cui attingere. Con una semplice inferenza statistica, considerando la già bassa percentuale di successo di una singola prova e moltiplicandola per il ridotto numero di tentativi all'interno di un campione che finisce con l'essere omogeneo, ne risulta una percentuale che rassomiglia di più a quella di un miracolo che non a quella di un evento fortunato.

Una barzelletta narra di un genovese che tutti i giorni prega Dio: "Signore, ti prego, fammi vincere alla lotteria!". Fino al giorno in cui Dio gli appare spazientito e gli risponde: "Io ti farei anche vincere, ma te almeno il biglietto compralo!".

Mettersi in gioco, dunque, quello sì, dipende indubbiamente da noi.
Come da noi dipende il modo in cui "giochiamo le nostre carte", ovvero come volta, volta (non una volta per tutte nelle intenzioni dichiarate sull'etichetta...), in ogni "mano" che si presenta, sappiamo rispondere.
Ma, per restare in metafora, quello che di fatto non possiamo scegliere è il tavolo da gioco.
Possiamo abbandonare quello che si rivela inadatto dopo averlo provato o possiamo caparbiamente insisterci. Possiamo illudersi di riconoscere la qualità di un tavolo che non abbiamo provato, ma raramente ciò corrisponde a verità, assai più spesso tale illusione ci preclude partite che avrebbero potuto essere piacevoli relegandoci nelle solite ripetizioni o nell'assenza di gioco.
Non sono le intenzioni esplicite a farci ottenere un tavolo o un altro. Semmai - come effettivamente accadrebbe in un torneo - è l'effettiva capacità di gioco che potrebbe farci selezionare (se un "selezionatore" diverso dal caso esiste) per uno specifico livello di gioco, non certo le intenzioni.

Così mentre tentiamo caparbiamente di dare credito alle etichette poste sopra le nostre e le altrui intenzioni la realtà si basa sulla sostanza. Sulla quale interagire è assai più complicato che sui sogni. Poiché si tratta della sostanza di quanto uno è effettivamente, nel quotidiano, capace di giocare. Nonché della sostanza effettiva del "tavolo" nel quale stiamo giocando la nostra partita. Se tuttavia si tratta di un tavolo di massello o di una buona riproduzione in plastica da lontano non lo si vede, occorre rischiare ed aprirsi ad orizzonti un po' più ampi di quelli offerti da banali classificazioni.

Machiavelli sosteneva che il successo in un'impresa dipendesse al 50% dalla fortuna, al 25% dalla presenza delle condizioni adeguate e al 25% dall'impegno e dalle capacità.
Quali che siano le percentuali e i reali elementi in gioco, io direi che tale tripartizione si offre per una formula un tantino più realistica di quella che ci ritiene liberi di ottenere ciò che vogliamo.

Sulla fortuna si interviene mettendosi in gioco e sommando così le percentuali di successo. Sulla capacità di riconoscere le situazioni si interviene rinunciando alle facili classificazioni ed osservando con sguardo più aperto. L'impegno va messo nel quotidiano e le abilità si raffinano con l'esperienza. Con buona pace del cercare chi condivide le nostre intenzioni (il quale, se come noi su tali fattori si affida, troppo spesso, come noi, condivide anche le scarse capacità di agire concretamente nel quotidiano).

Ma forse, anche ridimensionando così la visione comune, intervenire realmente su quanto ci accade potrebbe essere una chimera e la realtà potrebbe essere che semplicemente:
le cose accadono.
Poco male a mio avviso poiché sospetto che avesse ragione Huxley scrivendo che "la vita non è ciò che ti accade ma ciò che fai con ciò che ti accade".

Ah, dimenticavo, oggi lo scrive anche Fabio Volo. Poco male anche in questo caso, nemmeno Huxley lo avrà certamente scritto per primo.

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