2 apr 2013

Economia, finanza e benessere


Economia, finanza e benessere sono tre concetti profondamente distinti tra loro. Sebbene essi possano - e spesso lo fanno - influenzarsi l'un l'altro, non è rintracciabile nessuna correlazione matematica tra di loro. Non è cioè legittimo affermare che l'innalzamento di uno di questi aspetti migliori uno, o entrambi, gli altri.

Con economia si intende la produttività di beni o servizi di un determinato gruppo o paese. Ed è influenzata da capacità tecnologiche ed umane, accesso ai mezzi produttivi e richiesta culturale di beni o servizi.
La finanza è inerente la distribuzione della moneta di scambio convenzionalmente utilizzata per l'acquisto dei prodotti dell'economia.
Il benessere riguarda invece la qualità della vita ottenuta - anche, ma non solo!! - dall'accesso a suddetti beni e servizi. Soprattutto dovrebbe riguardare i risultati offerti alla qualità della vita da tale accesso. Non a caso: "qualità" della vita, non "quantità" di consumo.

Una prima considerazione necessaria, poiché tralasciata dai media ed ignorata dai più sebbene inconfutabile e facilmente riscontrabile, riguarda la natura della moneta. Essa, oltre ad essere una mera convenzione, resa obbligatoria per legge, non è legata ad aspetti di ricchezza oggettiva. Da decenni oramai essa non ha più alcuna convertibilità con l'oro. Né ha alcun legame con parametri oggettivi quali la capacità produttiva di beni o il know-how disponibile.

La moneta è prodotta, e ceduta in prestito ad interessi agli stati, da organismi privati, quali un tempo BankItalia, attualmente la BCE, o,  negli States, la Fed. Se per la Fed si può parlare di "struttura quasi-pubblica" una prima, superficialissima, indagine sulla distribuzione delle azioni (...) della BCE porterebbee alle varie banche nazionali degli stati in cui è attivo l'Euro (ma... il 14.51% di proprietà della Bank of England?). Tuttavia il gioco di scatole cinesi si svela non appena si constata l'evidenza che neppure un eufemismo potrebbe far passare per pubblica BankItalia!

Dovrebbe forse suscitare qualche piccola riflessione su quanto e perché tali organismi privati dovrebbero avere un qualche interesse che non sia privato. Solitamente se (ma spesso neanche ciò accade...) l'interlocutore medio supera le comuni obiezioni a constare con i propri occhi questi semplici dati reperibili anche sui siti istituzionali la reazione consiste nell'affermare che ciò non è importante. Bene, andiamo dunque avanti...

La distribuzione del mezzo convenzionale di scambio di beni e servizi, ovvero la moneta, è effettuata dalle banche commerciali sulla base delle decisioni prese dalle banche "nazionali", possedute dalle stesse banche commerciali (...), su come prestiti e finanziamenti debbano essere effettuati. Tali decisioni sono influenzate da valutazioni di organismi, anch'essi privati (...), sulla fiducia riposta nell'economia del singolo paese. Ora, anche tralasciando chi siano i soggetti che detengono i fili di tutto il meccanismo, non è forse interessante riflettere sul valore scientifico del concetto di "fiducia"? C'è una qualche relazione oggettiva e dimostrabile tra esso e qualche aspetto reale dell'economia? O non sembra piuttosto assomigliare di più ad una valutazione arbitraria utilizzata per favorire i propri interessi?

In questa brevissima sintesi di un meccanismo fatto passare per complesso ma bensì estremante semplice e funzionale c'è per caso un qualche riferimento, o un qualche bisogno di riferimento, alla politica di uno stato (la quale è manipolata dalla finanza, non influente su essa!)? Certo, ignorando le evidenze riportate si raccontano storie mediatiche ovviamente più affascinanti, dal momento che sono solitamente credute e preferite. Anche smettere di credere in Babbo Natale è stata in fondo a suo tempo assai duro...

Ad ogni modo ripercorrere brevemente le evidenze del perché la finanza non sia altro che l'espressione degli interessi di un gruppo informale dominante, non significa necessariamente che tale dominio produca una cattiva economia né uno scarso benessere. Poiché, come scrivevo, tali aspetti si influenzano ma non in modo determinato: occorre valutare altre variabili.

La costruzione di grandi opere (ehm, non in ponte di Messina...) ha più volte nella storia necessitato dell'assorbimento di grosse quantità di risorse finanziarie nelle mani di pochi che le hanno utilizzate per modificare l'assetto economico di un gruppo o di una nazione. Se ciò non fosse accaduto oggi non disporremmo di nessun monumento, nessuna cattedrale, nessuna infrastruttura; avremmo scarsissime tecnologie, non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale e quei settori produttivi di cui oggi l'esistenza è minacciata dalle attuali scelte finanziarie non sarebbero semplicemente mai esistiti. Certo, non esisterebbero neppure molti aspetti tutt'altro che positivi, ma ne esisterebbero altri oramai debellati. Questo per dire che il modo in cui viene concentrato o distribuito il potere di acquisto non è di per sé né positivo né negativo, non produce di per sé maggiore né minore economia, né -  meno che mai!! - maggiore o minore benessere.

L'economia dipende naturalmente dall'accesso alle risorse di cui necessita per mantenere il suo ciclo produttivo. E tali risorse sono mediate da aspetti finanziari. Con questo passaggio il potere finanziario può esercitare una forte influenza sulla economia reale. Un esempio di crisi puramente economica è quello offerto da una carestia, durante la quale si assiste ad un'effettiva riduzione di beni a prescindere da scelte finanziarie. Le odierne crisi sono però crisi finanziarie: le capacità produttive di beni sono altamente eccedenti alla richiesta, tanto che è diventato necessario indurre bisogni nei cittadini/consumatori per assorbirli. Il know-how tecnologico ed umano in Occidente - e l'Italia può vantare molte eccellenze in ciò - è altissimo. In una crisi creata dalla finanza limitando l'accesso al mezzo di scambio per le risorse - che sono ampiamente presenti - le redini del gioco sono tenute dalla finanza stessa.

L'aspetto che tuttavia più mi preme sottolineare riguarda il passaggio al punto finale del meccanismo, nonché quello che dovrebbe essere l'unico realmente importante ma che viene ampiamente ignorato: il benessere.
Fermo restando che una definizione di benessere richiederebbe una qualche confidenza con la troppo bistrattata Filosofia che, lungi dall'essere la naturale base esistenziale di cui ogni essere umano necessiterebbe, è diventata poco più che uno scomodo optional, alcuni passeggi elementari possono comunque essere seguiti.

Se è pur vero che la basilare soddisfazione del primario bisogno di nutrimento si basa sull'accesso alle necessarie derrate alimentari prodotte dall'economia, ed in tale circostanza l'accesso alle risorse sia tout court benessere; tutt'altra cosa è dedurne che una maggiore produzione di ogni tipo di beni e servizi produca maggiore benessere. Molti dei "beni" di cui necessitiamo non sono altro che bisogni indotti, avvertiti come essenziali ma lungi dall'esserlo oggettivamente. L'acquisto di una borsa griffata serve a compensare una profonda mancanza di autostima ampiamente alimentata dall'industria pubblicitaria. Risolve, sì, una necessità percepita, ma non apporta altro benessere che la compensazione di una mancanza creata ad hoc. Non solo tuttavia alcune necessità percepite sono in ultima analisi superflue, per quanto non intrinsecamente dannose. Alcuni prodotti dell'economia, come quella bellica ad esempio, producono un'indubbia diminuzione del benessere sociale, per quanto siano voci importanti di quel PIL che vorrebbe essere fatto credere legato al benessere. Altri prodotti sono infine più subdoli, offrono un apparente benessere, difficilmente definibile come tale da un'analisi più approfondita. Siamo ad esempio certi che quella flessione nella vendita di automobili così drammaticamente descritta dai media, al di là degli inevitabili fastidi per i soggetti che da essa dipendono direttamente i propri stipendi, rappresenti un'effettiva diminuzione del benessere di una società?

Nel nostro ingiustamente bistrattato paese si leggono stime di altissima nuova povertà basate essenzialmente sulla manipolazione dei parametri utilizzati per definire "povertà". Poco importa a tali stime l'oggettiva constatazione che dal dopoguerra ad oggi nessuno, che non lo abbia "scelto" per instabilità mentale che lo abbia portato a non ricorrere alla ricca e funzionante rete di assistenza sociale, sia più morto di inedia. Molto più utile è a fini sensazionalistici riportare le percezioni di famiglie che si sentono povere per non potere soddisfare quei bisogni indotti di cui sembriamo non poter più fare a meno.

Poi, sì, certamente, da noi - come nel resto del mondo... - abbiamo scelte burocratiche, figlie dirette delle scelte finanziarie e, solo per una ipocrita facciata necessaria alla più semplice manipolazione, fatte passare per scelte politiche, che non aiutano l'economia. Ma ciò, sulla base di quanto scritto fin qui, è veramente, sulla sola e semplice constatazione che è in atto un cambiamento economico, descrivibile con quel francamente oramai insopportabile sensazionalismo utilizzato dai media e di riflesso nei bar?

Io, da parte mia, mi permetto un umile consiglio per affrontare la crisi:
"Pensa! È gratis..."

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