25 apr 2014

Io, te, noi


Fu Freud, riprendendolo da Schopenhauer, a rendere celebre il dilemma del porcospino. Per Schopenhauer la soluzione consisteva nello sviluppare sufficiente calore interno da non necessitare contatti sociali: ma lui - si sa - era misogino; quasi misantropo. Da allora molti psicologi si sono interrogati su quale sia, se ci sia, la giusta distanza. La psicoanalisi ha scritto molto sul conflitto tra il desiderio di autoaffermazione e quello di appartenenza ad un gruppo. Lo ha fatto nel suo idioma di proiezioni, fasi anali, ed altre folcloristiche spiegazioni. Io lo farò nella lingua che conosco; lo farò interrogandomi sul gruppo minimo: la coppia - vi si trovano amplificate tutte le contraddizioni.

Ognuno di noi, o quantomeno la maggior parte, ricerca in un qualche momento della propria vita una relazione di coppia. Per Schopenhauer - forse spaventato dalle "spine" - questo impulso è "l'inganno della specie per perpetuare se stessa". Ciò è in parte certamente vero (agiscono su di noi predisposizioni biologiche e ormonali), nondimeno ricerchiamo nella coppia l'intensità di calore offerta dal sentirsi parte di un "noi" così esclusivo.

Benché sia relativamente semplice capire quali benefici possa offrirci la vita di coppia, e perché se ne sia attratti, molto meno lo è capire perché ci provochi tante difficoltà. Certamente, quel "noi" che si è creato ha sue esigenze, contrapposte a quelle che avevamo quando eravamo soli, questo lo capiamo tutti. Come pure capiamo che alcuni conflitti tra i desideri del proprio sé individuale e le necessità del "noi" sono inevitabili. La risposta usuale a questo dilemma è che vadano fatte le cose con "buon senso".

E qui nascono i problemi. Non solo perché il concetto di "buon senso" è un po' vago, e c'è tutt'altro che comune accordo su cosa debba comportare, ma anche e soprattutto perché perfino la propria idea di esso muta con il mutare dello stato d'animo. Così una coppia moderna da per assodato che il partner abbia i propri spazi personali, ma l'ampiezza di questi suoi spazi è bene che sia ristretta quando avremmo voglia di "noi", per poi crescere quando noi abbiamo voglia dei nostri spazi.

Come se non bastasse, l'idea di quello che vorremmo in un momento diventa paradigma assoluto di come "ci si dovrebbe comportare" dandoci adito ad accusare l'altro per questa palese violazione, completamente dimentichi delle volte che abbiamo violato noi la stessa "regola". Così, "l'altro dovrebbe capire che ho bisogno di vedere i miei amici", ma è uno stronzo se vuole vedere i suoi quando io vorrei maggiore intimità; "dovrebbe capire che non posso essere sempre presente", ma non può non rendersi conto che ho bisogno di molte attenzioni.

Forse, meglio che regole su come ci si dovrebbe comportare, più adatte a rinfacciarne l'omissione altrui che a farci da guida (cui siamo comunque molto bravi a trovare eccezioni di comodo...), servirebbe un po' più di consapevolezza. Servirebbe domandarsi con sincerità come ci comportiamo noi: non come ci piace raccontarci che ci comportiamo, ma cosa davvero produce nell'altro il nostro comportamento, che effetto farebbe se fosse lui a farlo a noi quando noi stiamo come sta lui.

Forse sarebbe utile domandarsi che valore diamo a questo "noi", se vale la rinuncia ad altri possibili "noi". Forse dovremmo chiederci cosa davvero ci aspettiamo dall'idea di un "noi", se è compatibile con quello che si aspetta l'altro, e se siamo disposti per ciò ad alcune inevitabili rinunce. Forse, e soprattutto, sarebbe utile non assumere che le rinunce richieste a noi e al partner siano quelle e solo quelle che noi vorremmo fossero, o che ci verrebbe naturale offrire.

Forse la propria visione egocentrica non è la più adatta a far funzionare una coppia. Così bravi ad attaccare l'egocentrismo del proprio partner, quanti sanno vedere il proprio?

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