17 feb 2021

Tu anima mia


 

Tu anima mia, odiosamata

fonte di gioie e dolori,

ricordi l'unione della serata

e il tepore dei nostri cuori?


Dove fugge la tua presenza

quando un nonnulla ti turba?

Dimentichi della nostra essenza

e, no, in questo non sei furba.


Guarda meglio. E alle radici

della rabbia non troverai

sostanza. Ti prego, riflettici

amore   -   non ne soffrirai.


Sentirti fragile ti rende vittima,

schiava del divampante timore

di ricevere mancanza di stima,

sia pur guardata con amore.


Anche quando distanti, pur

dallo stesso micelio nasciamo,

insieme ne ridevamo, eppur

sembri aver scordato che ti amo.

15 gen 2021

Risposta a Alceste

 


Alceste, per chi non lo conoscesse è lo pseudonimo sotto il quale si cela l'autore di un blog di rara ricchezza, che consiglio di esplorare a fondo. Quantomeno, prima di leggere la mia risposta, è necessario avere letto il post in questione.

Il mio commento:

 

Leggo, e quasi ogni frase risuona in me col sapore della conferma. Spesso so, quasi sempre sento, le stesse note. Talvolta, sebbene in stile meno nobile, già le ho anche io scritte. Nondimeno mi è utile leggerlo e rileggerlo, pertanto innanzitutto: grazie!

Un'unica nota sento stonata. Non perché in sé scorretta, solo che la sua esecuzione conduce - almeno me - su sentieri invasi dai rovi. A poco servirebbe percorrere col pennato solchi oramai non più battuti, poiché tali sono divenuti avendo da tempo disilluso molti viaggiatori. Tra cui me.

Parlerò più chiaramente: il mondo delle attuali illusioni dilaganti, dei social, degli spettacoli politico-sociali, dello scientismo dalla dignità epistemologica di una telenovella sudamericana, e quant'altro abbiamo sotto gli occhi, ha preso il sopravvento sulla vita, perché essa era da tempo sentita vuota. Ricordo gli anni della mia gioventù adolescenziale alla frenetica ricerca di un'ancora di salvezza dal Nulla che avanza. Ma come fronteggiarlo questo Nulla se già allora valori, ideologie, prassi e consuetudini dominanti avevano il sapore della menzogna?

Sia chiaro, negli anni anche io ho sviluppato la convinzione che la verità non rende liberi (come leggo in un post precedente) e che le menzogne guidano le esistenze. In verità credo che la distinzione tra una menzogna e l'altra più che ontologica sia estetica, il che non sarebbe certo ridurla a un piano meno rilevante, tutt'altro! Il vero problema dell'attuale messinscena è proprio che è esteticamente misera e deprimente quasi più della verità (che almeno ha il merito di essere tale...). L'etica soggiacente al lamento di Iperione sarà forse altrettanto mendace della narrazione televisiva, ma quanta bellezza! Non è forse per la bellezza, di un'ideale, di una terra, di una donna, che si muore felici da eroi? La verità non rende liberi, no, anzi, è piuttosto deprimente. La bellezza, se forse non esattamente liberi, certamente rende felici. Il problema tuttavia è che non si è davvero nella condizione di aderire o meno a una narrazione, poiché perché essa risuoni pienamente in noi bisogna esserci nati ed esserci vissuti comodamente almeno per un po' o, altrimenti, occorre esservi condotti dal fiume in piena della maggioranza o, infine, averla conquistata, con la stessa fatica con cui si scala una montagna.

Lo descrisse meravigliosamente Jung confrontando il destino di un cristiano protestante, solo davanti al deserto (privo anche del credo nell'infallibilità papale sotto il quale un cattolico dei primi del Novecento poteva ancora proteggersi), e  le convinzioni dei Pueblo, una popolazione amerinda. Questi ultimi si ritengono (si ritenevano? esistono ancora? non saprei...) figli del Sole e esecutori ogni mattina e ogni sera di rituali imprescindibili al suo sorgere e al suo tramontare. Il capo tribù con cui Jung riferisce di avere parlato è preoccupato che, se i missionari cristiani convertiranno ancora altri del suo popolo, non ne resterà a sufficienza a eseguire i rituali e il Sole cesserà di sorgere e tramontare. Forse - prosegue Jung - persistere in questa convinzione, ai nostri occhi così bislacca, può sembrarci una forma di pazzia, eppure, proviamo a pensare alla qualità della vita derivante dal credersi figli del Sole e a lui indispensabili o credersi esseri inutili in un mondo generato dal caso e altrettanto inutile: chi dei due vive meglio? Chi vorremmo essere? Ma la scelta non sussiste, un occidentale non può davvero scegliere di credere nella narrazione dei Pueblo, per quanto si impegni non potrebbe mai riuscirci davvero. Chi non è nato sotto una narrazione tanto felice non ha che tre possibilità: adottare passivamente le nuove narrazioni collettive luciferine; cercare tra i resti delle narrazioni tradizionali che anche qui da noi un tempo esistevano; o affrontare da solo (o al più, se fortunato, con qualche raro compagno di viaggio) il deserto.

Chi però - come me - già decenni fa sentiva false e mendaci le narrazioni tradizionali (religiose, politiche o sociali che fossero) è forse reo di avere sostenuto quel mondo artificiale che oggi vuole essere l'unico e che un tempo adescava noi poveri ingenui offrendoci quelle (briciole di) libertà che là fuori già allora non trovavamo, ma che possibilità ha oggi di tornare a quella narrazione che già anni fa lo aveva disilluso? Nella "vera vita" già mi sentivo un alieno, poiché già allora non mi pareva per niente "vera" e ben poco "vita". Sebbene fosse "una principiante" rispetto ai livelli oggi raggiunti, già allora la vedevo di "qualità" esteticamente povera, un b-movie, forse rivalutabile in virtù dell'ancor più mediocre produzione successiva, non certo per meriti solo tardivamente riconosciuti. Eccomi, pertanto ancora qui, nel deserto, spesso solo, talvolta con poveri fessi o con menti brillanti (come su una circonferenza, gli estremi tendono a congiungersi), a cercare una Salvezza nella quale possa davvero militare a tempo indeterminato e non solo quel tanto che basta a rendermene manifesta la vacuità, per quanto tenti di tapparmi il naso. Anche questo (per me prezioso) scambio, a ben vedere è nel virtuale: non ci siamo mai visti né conosciuti. Tuttavia esprimendomi così col mio vicino di casa riuscirei unicamente a confermargli la sua opinione che io sia un tipo assai strano e pericoloso.

Questa è la verità, deprimente appunto, e forse oggi, dopo decenni di strenua difesa della verità, mi presterei anche a saltare sul carro di una qualche narrazione menzognera, purché non al livello qualitativo dell'attuale telenovella, ancor più scadente di quelle che da anni ci propinano. Leggo, altrove, in questo blog, "di farsi colonna del tempio in rovina", espressione poetica di quanto ho già pensato e descritto in prosa, e davvero ringrazio per questo attimo di bellezza. Ma dove trovarla però nella vita vera? Un tempo sopravviveva (e già era da sola insufficiente a vivere bene) in un sorriso, in una stratta di mano. Oggi la mano mi viene negata, il sorriso degli altri, sempre ammesso che ci sia, è coperto da bavagli-simbolo, e il mio a tale spettacolo sempre più fatica a sussistere. Paradossale che senta più vicino chi gestisce un blog, autore di parole oggi purtroppo di rara bellezza, che il prossimo incontrato per strada. Eppure la prima vicinanza sussiste unicamente grazie al virtuale; la seconda lontananza è aumentata dalla digitalizzazione del mondo ma, a ben vedere, esisteva almeno dai tempi della mia nascita....


24 dic 2020

Il Flauto Incantato

 


Auguri di Buone Feste con un breve video di animazione realizzato con l'amica disegnatrice Alice.
Se ti piace aiutaci a diffonderlo, inoltra ai tuoi amici questo link: https://www.youtube.com/watch?v=alCU2DyuHJc

24 nov 2020

Un gioco paradossale


 Questo è un gioco mentale. Come i disegni che nascono dall'unire i puntini numerati, proverò a tratteggiare l'immagine risultante dalla congiunzione di più teorie. Non è questa la sede per valutare le teorie in questione. L'ho scritto, questo è un gioco. La regola è di assumere per vere tutte le teorie elencate. Certo, il sapore del gioco sarà diverso per chi ritiene tali teorie corrispondenti a realtà o per chi le liquida come stupidaggini. Anche questo fa parte del gioco.

Iniziamo dal 1° punto/teoria: la storia, quantomeno quella degli ultimi secoli, è stata determinata dal volere di ristrette élite di potere che l'hanno influenzata, manipolata e sfruttata come mezzo per plasmare gradualmente la forma delle società nella direzione da esse desiderata. Tutta la storia, compresi eventi macroscopici come le due Guerre Mondiali sarebbero state orchestrate a tal fine, indirizzando ad arte le "decisioni" dei leader mondiali.

2° punto/teoria: i piani di suddette élite rispecchierebbero i desideri di entità demoniache cui i potenti, novelli Faust, sarebbero asserviti in cambio del potere temporale loro derivante dall'esserne i fautori, allo scopo di imprigionare l'umanità in una dimensione sempre più materialista e anticristica.

3° punto/teoria: anche tale obiettivo sarebbe tuttavia inserito in un più ampio disegno spirituale nel quale "l'avversario" (Satana) avrebbe la sua necessaria funzione ai fini del risveglio individuale e dell'intera umanità. L'esistenza terrena sarebbe una sorta di "palestra" per la consapevolezza e, si sa, nessun allenamento è fruttifero in assenza di sforzi.

4° punto/teoria: la pericolosità dell'epidemia di COVID-19 sarebbe stata amplificata oltremisura dai media mondiali, affinché i governi di tutto il mondo potessero prenderla a pretesto per introdurre misure dittatoriali (limitare la libertà di espressione, di riunione e di spostamento, violare la libertà di scelta terapeutica) volte a un Grande Reset (distruzione delle economie, digitalizzazione della società e creazione delle infrastrutture a essa necessarie, eliminazione delle valute contanti, ecc...) funzionale alla creazione di un Nuovo Ordine Mondiale.

Unendo i puntini l'ultima teoria si collegherebbe a tutte le precedenti e formerebbe in tal modo l'immagine della situazione attuale. Chiaramente a patto che le teorie siano fondate. Ma questo è un gioco e la regola prevede di assumerle per vere. La prospettiva al punto quattro è certamente terrificante, soprattutto se vista come l'attuazione dei primi due punti e perfino avendo fede nel terzo punto.

Tuttavia, osservando l'immagine e rapportandola con "istantanee" ricavate in modo analogo in altri momenti storici, come ad esempio la Seconda Guerra Mondiale, emerge una considerazione. Di guerra, in trincea o sotto i bombardamenti che sia, si muore ben più facilmente che di COVID, e le conseguenze economiche, mediche e psicologiche per una popolazione in guerra sono ben più traumatiche di quelle - non per questo da sminuire - derivanti dalle misure globalmente oggi intraprese.

Se, in questo gioco, si può dire che entrambi siano eventi orchestrati ai fini esposti, non si può tuttavia dire che l'intensità sia la stessa. A fronte del tangibile pericolo di una pallottola in battaglia o di una bomba sganciata dal cielo, oggi i "mostri" hanno altra consistenza. Come i cattivi di un fumetto di cui ho già scritto, appaiono più illusori: il velo di maya è più sottile.

Qui il paradosso: se tutto ciò è parte di un piano più ampio, in ultima analisi inevitabile, in quanto "palestra" spirituale, in quanto intento di superiori entità demoniache, in quanto programma di potentissime élite, beh, se è così, in fondo non c'è andata così male che a tal fine siano queste le difficoltà in essere. Non sarà che in fondo le "forze del male" vadano pure ringraziate per propinarci un allenamento soft?

23 nov 2020

Tra scienza e scientismo - in edicola

 

Originariamente pubblicato qui.

Nel numero 101 della rivista mensile l’Altra Medicina è presente un mio articolo dal titolo Tra scienza e scientismo, nel quale introduco ai principi di epistemologia necessari a distinguera la prima dal secondo.

Nei tempi attuali, nei quali la scienza sempre più sostituisce la politica nel governo della società, diventa essenziale imparare a discriminare tra conoscenze realmente scientifiche e affermazioni che sebbene si dichiarino scientifiche mancano dei presupposti per esserlo realmente.

Il resto, in edicola…

18 nov 2020

Educare alla libertà

vignetta di Alice Lazzari – il Regno dell’Ongheu

Originariamente pubblicato qui.

Fairy tales do not give the child his first idea of bogey.
What fairy tales give the child is his first clear idea of the possible defeat of bogey”

Gilbert Keith Chesterton

Chi non si è mai interrogato su cosa lascerà ai propri figli? Che beni materiali, forse, ma anche che ambiente, che società e, sopratutto, che capacità di muoversi in essa, che educazione, che istruzione e che formazione riceveranno. Come è noto “educare” deriva dal latino educere, “tirare fuori”; “istruire” condivide con “costruire” la sua radice etimologica, struĕre, cioè “disporre del materiale” in- “dentro”; infine “formare” è dare una forma. L’educazione può essere “buona”, ma anche “cattiva”, giacché entrambe giacciono in nuce negli animi umani ed entrambe possono essere attivate. L’istruzione può introdurre nozioni e informazioni corrette o errate. La formazione può modellare gli adulti che desidereremmo, oppure no. I termini, e i processi che designano, non sono in sé validi a prescindere da quali siano i valori di riferimento che guidano l’intero percorso, pertanto tali valori non possono essere dati per scontati né liquidati con frasi fatte di circostanza. Prima di affrontare la questione occorre tuttavia osservare che ciò che viene deliberatamente insegnato (dal latino in-, “dentro”, e signare, “imprimere un segno”) non costituisce l’insieme di quanto è appreso. Non solo perché solo una parte del programma del corso sarà effettivamente appresa, ma anche perché saranno appresi anche alcuni aspetti (come abitudini, stili di comportamento e molto altro) che non solo non fanno parte del programma ma non necessariamente sono consapevoli agli stessi insegnanti.

A parte i comportamenti istintivi, per definizione, innati, rigidi, codificati – e nella nostra specie poco presenti – ogni altro comportamento deve essere appreso e numerosi sono i possibili meccanismi di apprendimento, oggetto di studio della pedagogia, ma anche dell’etologia e della psicologia. In alcune specie animali l’imprinting è una prima forma di apprendimento; in molte specie il gioco tra i cuccioli è una vera e propria scuola; un comportamento può essere attivato dall’associazione con uno stimolo (condizionamento pavloviano); può essere indotto tramite rinforzo (condizionamento operante); può plasmarsi osservando il comportamento di altri (apprendimento vicario). Tali dinamiche possono essere sfruttate con deliberata crudeltà, come nel celebre caso del piccolo Albert, un bambino di pochi mesi che lo psicologo John B. Watson (1920) condizionò ad avere paura dei topi e, per successiva generalizzazione anche di altri animali di cui precedentemente non aveva alcun timore. Spesso tuttavia i bambini apprendono da comportamenti non a ciò finalizzati, ad esempio osservando un adulto aggressivo e violento con altri, o anche solo nei confronti di una bambola, come mostrano gli esperimenti dello psicologo Albert Bandura (1961). Naturalmente al di fuori di un ambiente sperimentale le influenze sono molteplici e le traiettorie di sviluppo complesse e articolate. Eppure, che se ne sia consapevoli o meno, critiche, elogi, o esempi offerti da parte di persone significative, contribuiscono alla formazione del futuro adulto quanto, se non più, il programma di studi seguito. Nostra responsabilità è tenerlo a mente e interrogarci spesso su quali siano i valori di riferimento nostri e della nostra società e se i nostri esempi e i nostri insegnamenti siano ad essi coerenti, poiché diversamente, quali che siano le intenzioni, non saranno i valori sperati ad essere trasmessi.

Tra i valori fondanti della democrazia, c’è certamente la libertà individuale, vero elemento di differenziazione dalle dittature. Nondimeno rimane di difficile individuazione dove inizi e dove finisca la libertà di ognuno, cosa impedisca a una democrazia di sconfinare nel Far West o, viceversa, permettere che nelle vesti solo apparenti di democrazia si nasconda un totalitarismo. La risposta consueta è che alla libertà deve affiancarsi il senso civico. Vero. Sebbene si rischi di traslare la questione: in cosa consiste il senso civico? Cosa ci impedisce di proiettare su di esso unicamente i nostri interessi o, viceversa, di intenderlo come mera obbedienza all’autorità. Poiché nel primo caso ci troviamo nuovamente nel Far West e nel secondo a rischio di dittatura. Questo secondo aspetto potrebbe tuttavia non essere chiaro se non si riflette che, ad esempio, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale non sarebbero stati possibili se i soldati e i cittadini non avessero obbedito a ordini crudeli. In un breve pamphlet, L’obbedienza non è più una virtù, per Don Lorenzo Milani (1965), in un’epoca in cui la semplice pressione di un pulsante può sganciare una bomba, l’avere ricevuto tale ordine non pulisce la coscienza dell’esecutore che obbedendo ha provocato centinaia o anche migliaia di morti. La “Banalità del male” (Arendt, 1963) di chi stava solo “facendo il suo dovere” ha reso possibile l’Olocausto. Pochi anni prima, sempre in Germania, con la compiacenza della popolazione fiduciosa nei principi eugenetici, allora ritenuti scientifici (non solo in Germania), la comunità medica ha obbedito al programma conosciuto come Aktion T4 (Breggin, 1993). Il personale sanitario tedesco ha consapevolmente sterminato decine migliaia di “Lebensunwerten Lebens” (Vite indegne di essere vissute): malati mentali, portatori di gravi handicap, affetti da malattie incurabili, bambini nati deformi. Tutti crimini contro l’umanità compiuti da onesti cittadini, da soldati disciplinati, da medici e infermieri acriticamente aderenti alla visione dominante e obbedienti agli ordini ricevuti. No, il senso civico non può essere un valore di riferimento sufficiente, a meno che non sia costantemente accompagnato da un sano senso critico.

Forse i valori sottostanti a una vera democrazia possono riassumersi in: libertà, senso civico e senso critico. Può darsi che approfondendo l’analisi si incontrerebbe anche altri aspetti, possibile, ma dubito che libertà, senso civico e senso critico potrebbero non risultare “ingredienti” essenziali. Riprendendo il fulcro del discorso la domanda è quindi, con il nostro esempio, e non solo con le affermazioni o le intenzioni, che abbiamo visto non essere sufficienti, come individui e come società, stiamo formando le future generazioni a questi valori? Poiché se così non fosse cosa può impedire alla storia di ripetersi? Noi, figli o nipoti di una generazione che per riaffermare il valore della libertà, avendo provato sulla propria pelle gli orrori che possono derivare dalla sua assenza, è stata pronta a morire, che priorità mostriamo ai nostri figli o nipoti di riservare a tale valore? Insegniamo alle prossime generazioni la mera obbedienza o il costante esercizio del senso critico come antidoto a nuovi e indesiderati genocidi guidati dalle autorità del momento? A livello di società la risposta a questi quesiti spetterà forse agli storici del futuro. A livello individuale però rispondere spetta a ognuno di noi, ogni giorno, davanti allo specchio, guardandoci dritti negli occhi.

Riferimenti bibliografici

Arendt, H. (1963). Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. New York: Viking Press.

Bandura, A., Ross, D., Ross, S. A. (1961). Transmission of aggression through the imitation of aggressive models. Journal of Abnormal and Social Psychology, 63 (3), 575–582

Breggin, P. (1993). Psychiatry’s Role in the Holocaust. International Journal of Risk & Safety in Medicine, 4 (2): 133–48.

Milani, L. (1965). L’obbedienza non è più una virtù. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

Watson, J., B. & Rayner, R. (1920). Conditioned emotional reactions. Journal of Experimental Psychology, 3(1), 1-14.

16 ott 2020

La consapevolezza come antidoto ai condizionamenti dei social media

 

vignetta di Alice Lazzari – il Regno dell’Ongheu

Originariamente pubblicato qui.

To become different from what we are,
we must have some awareness of what we are”

Eric Hoffer

Nell’odierna società informatica siamo sopraffatti da un’enorme mole di notizie, informazioni e contenuti digitali. In un tale contesto mantenere l’autonomia di giudizio può essere più complesso di quanto sembri. Non solo nei casi in cui siano ipotizzabili deliberati tentativi di manipolazioni dell’opinione pubblica (Tangocci, 2020), ma perfino in occasione del quotidiano uso dei cosiddetti “social media”, o “social network”. Il presente articolo intende esplorare, in una prima parte basata sul documentario “The social Dilemma”, le influenze che tali piattaforme hanno sui loro membri e, in una seconda parte, proporre la peculiare accezione di “consapevolezza”, che verrà delineata nel corso del testo, come antidoto a tali condizionamenti.

The Social Dilemma

“The social Dilemma” è il titolo di un recente film documentario (Orlowski, 2020) basato sulle dichiarazioni di esponenti di primo piano del mondo dei social media, come l’ethical designer Tristan Harris e Aza Raskin, fondatori del Center for Humane Technology e ex collaboratori, rispettivamente, Harris di Google, e Raskin di Mozilla; Justin Rosenstein ideatore del pulsante “mi piace” di Facebook; l’ex presidente di Pinterest Tim Kendall; e esperti come Shoshana Zuboff, professoressa di psicologia sociale alla Harvard University, o la psichiatra Anna Lembke, specialista in dipendenze alla Stanford University. Le testimonianze riportate delineano un panorama che può sinteticamente essere riassunto nei seguenti punti:

  • Mentre nei primi decenni di vita le aziende dell’high tech vendevano i loro software agli utenti, da alcuni anni i giganti della Silicon Valley vendono l’attenzione dei loro utenti agli inserzionisti, che sono pertanto diventati i veri clienti di aziende come Facebook, Google, Twitter, o simili. Pertanto, poiché ad essere oggetto di vendita, e quindi fonte di guadagno, è il tempo trascorso dagli utenti sulle piattaforme, ogni azienda è in competizione per aumentarlo il più possibile, anche a costo del benessere dell’utilizzatore del servizio, non protetto da normative a riguardo.
  • Rispetto alla tradizionale vendita dell’attenzione dello spettatore all’inserzionista, tipica dei media convenzionali, le piattaforme social consentono la vendita di un’attenzione selezionata. Infatti tali aziende, oltre che dell’attenzione dell’utente, dispongono anche di enormi quantità di dati su di lui (i cosiddetti big data: preferenze, amicizie, opinioni, stati emotivi, tempo dedicato a ogni immagine, post, argomento, ecc…), utili a generare automaticamente degli accurati modelli predittivi su quale stimolo riceverà il suo interesse. La credenza che le aziende vendano i nostri dati non corrisponderebbe quindi a realtà, poiché è interesse delle aziende tenersi stretti i dati raccolti e utilizzarli per generare una profilazione dell’utente migliore di quella disponibile alla concorrenza, così da ottenere modelli predittivi più affidabili.
  • Il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2019) offre all’utente dei servizi apparentemente gratuiti, visto che non è richiesto un pagamento in denaro, giacché il profitto per l’azienda deriva dal monitoraggio dei dati dell’utilizzatore, spesso di ciò inconsapevole. Infatti ogni singola attività online viene osservata, tracciata, misurata, monitorata e registrata. Incrociando elementi apparentemente innocui come l’orario di apertura di un sito, il tempo di osservazione di una foto, la permanenza sul profilo di una persona, per non parlare dei nostri stessi post e dei commenti a quelli altrui, è possibile tracciare profili ben più dettagliati di quanto sia mai stato storicamente possibile.
  • Disporre per ogni singolo utente di modelli predittivi altamente affidabili consente di mostrargli contenuti personalizzati, ad esempio, per ottimizzare la ricezione di un messaggio pubblicitario. Tuttavia la personalizzazione non si limita alla scelta di quali inserzioni mostrare, ma concerne l’intera selezione dell’esperienza social dell’utente, quali contenuti mostrare per primi o con maggiore frequenza, quali rendere invece difficilmente accessibili. In tal modo il meccanismo è in grado di alterare la percezione delle “realtà” dell’utente, permettendo, ad esempio, di rafforzare divergenze preesistenti tra opposte fazioni, ma anche di crearne di nuove. Un drammatico esempio è offerto dalle persecuzioni verso la minoranza Rohingya in Myanmar a seguito di notizie false postate su Facebook dai militari del regime birmano (Whitten-Woodring et al., 2020).
  • In luoghi come lo Stanford Persuasive Technology Lab (captology.stanford.edu), intere generazioni di tecnici sono formate a sfruttare le vulnerabilità della mente umana per sviluppare aspetti informatici, come specifici design, in grado di modificare il comportamento delle persone. Ad esempio, sfruttando tecniche di condizionamento tramite rinforzo intermittente, lo stesso principio sul quale si basa la dipendenza da slot machine. Esiste una disciplina, chiamata growth hacking, che si occupa di strategie per far crescere un’azienda, un sito, una piattaforma, aumentandone le iscrizioni, il coinvolgimento, la condivisione. Tra i suoi metodi più tipici vi sono i cosiddetti test A/B scientifici, ovvero dei test di preferenza eseguiti mostrando opzioni diverse a due gruppi di utenti e osservandone la reazione. Col sommarsi di miriadi di piccoli esperimenti è possibile sviluppare il modo ottimale per far fare ai soggetti quanto desiderato. Nel documentario, Shoshana Zuboff afferma che da simili esperimenti aziende come Facebook o Google hanno concluso di poter influenzare i comportamenti e le emozioni nel mondo reale senza mai allertare la consapevolezza degli utenti.
  • Queste piattaforme non sono strumenti, poiché uno strumento semplicemente attende di essere utilizzato, mentre in questo caso sono in campo sofisticatissime strategie per sviluppare dipendenza e indurre alle reazioni desiderate. Degli algoritmi calcolano cosa mostrare all’utente al fine di ottimizzare i tre principali obiettivi aziendali: massimizzare il coinvolgimento per aumentare la permanenza sulla piattaforma, coinvolgere più persone possibili, aumentare la vendita di pubblicità. Si tratta di programmi di intelligenza artificiale basati su apprendimento automatico che diventano sempre più abili nel raggiungere tali obiettivi. Sono in corso ampi dibattiti su quando l’IA diverrà più intelligente dell’uomo e, sostituendolo al lavoro controllerà il mondo; sfugge tuttavia che c’è un momento che arriva prima, quello in cui la tecnologia supera e sconfigge le debolezze umane, quel momento è già arrivato, l’intelligenza artificiale sta sta già controllando il mondo oggi. Perfino gli intervistati riportano che, pur conoscendo tali meccanismi, non sono stati capaci di sottrarvisi, poiché esattamente come delle droghe i social stimolano il rilascio della dopamina nel circuito di gratificazione.
  • Il sistema è talmente potente da giungere a intaccare lo stesso senso di identità e di autostima. Per i membri della nostra specie, in quanto animali sociali, è importante l’opinione degli altri, pertanto ci siamo evoluti per preoccuparcene, ma non siamo preparati a preoccuparci dell’opinione di migliaia di persone, né ad assumere una dose di approvazione sociale ogni pochi minuti, tramite “mi piace”, cuoricini o altro. Tali gratificazioni lasciano presto con un senso di vuoto che induce alla dipendenza, e favorisce depressioni, ansie e insicurezze. Esiste perfino una cosiddetta “dismorfia da Snapchat” che induce chi ne è affetto a richiedere operazioni di chirurgia estetica per assomigliare all’immagine di sé alterata dai filtri dei social media.
  • Inoltre, secondo uno studio del MIT (Vosoughi et al., 2018) le notizie false si diffondono più velocemente di quelle vere, aspetto che le renderebbe preferibili ai suddetti algoritmi volti a ottimizzare la visualizzazioni. Ma la questione non può essere meramente commerciale poiché abbiamo visto che tali visualizzazioni sono in grado di modificare la realtà sociale. Per questo il problema riguarda tutti, non solo chi utilizza i social media. Come già visto in Myanmar il sistema può essere impiegato da persone senza scrupoli per innescare i cambiamenti desiderati. Le stesse democrazie sono a rischio di svilirsi in dittature digitali non riconosciute come tali, ed è ingenuo pensare che degli organismi di controllo possano arginare tale rischio, poiché non si capisce cosa, e come, potrebbe essere in grado di preservare da analoga contaminazione i membri degli stessi organismi di controllo.
    Nelle parole di Tristan Harris, “Questa è l’ultima generazione di persone che sanno com’era prima che si verificasse questa illusione. Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di starci dentro?”.

Cos’è la consapevolezza?

“Consapevolezza” è tra quei termini di uso comune, e pertanto apparentemente ben conosciuti, che si mostrano ricchi di accezioni di significato ben diverse tra loro non appena si tenta di definire il concetto con la precisione necessaria a una sua disamina. Lo stimato linguista Giacomo Devoto (1968) ci riporta che “consapevole”, da cui “consapevolezza”, deriva dall’unione del prefisso “con-”, con valore rafforzativo (diversamente da chi gli attribuisce valore di compagnia), “sapere” e il suffisso “-evole”, con valore attivo, ottenendo dunque la “qualità di colui che consà”, ovvero che “sa in modo rafforzato”, più profondo. Anche così definito tuttavia il termine si sovrappone in parte a alcuni dei significati propri del termine “coscienza” e i confini sono spesso lasciati alla sensibilità dei singoli autori.

Sul termine “coscienza” ho approfondito nella seconda parte di un mio articolo (Tangocci, 2019) i diversi significati che può assumere in psicologia. Un’analoga classificazione dei significati riferibili a “consapevolezza” sarebbe tuttavia complicata, sia dalla sovrapposizione in italiano con alcune delle accezioni di “coscienza” riportate nel suddetto articolo, sia dalla non diretta corrispondenza di “consapevolezza” e “coscienza” con “consciousness” e “awareness”, confusione aggravata dal termine “mindfulness”, talvolta anche esso tradotto con “consapevolezza” senza riferirsi adeguatamente alle sfumature di significato derivabili dall’omonima tecnica. Inoltre non mi risulta che in psicologia esistano rigorose definizioni del concetto, talvolta utilizzato per indicare la consapevolezza percettiva, o la consapevolezza di una specifica situazione, talaltra mutuato tout court, e con tutte le ambivalenze del caso, da tradizioni esoteriche, filosofiche o religiose.

Un panorama quindi complesso, che non mi è qui possibile dipanare oltre. Nondimeno ritengo che questa rapida esplorazione sia stata necessaria a chiarire che il termine può evocare significati tra loro molto diversi, e distinguerli dalla specifica accezione di consapevolezza che attribuirò al termine nel proseguo del testo: la consapevolezza di non essere abitualmente presenti alle dinamiche in atto tra noi e gli altri, e in tal modo di essere facilmente condizionabili da eventuali tentativi di manipolazione, ivi compresi quelli dei social media.

La consapevolezza di non essere consapevoli

Come è noto, Socrate affermava di non sapere, e grazie a ciò l’Oracolo di Delfi lo proclamò il più saggio di tutti gli uomini. Similmente intendo delineare il concetto di “essere consapevoli di non essere consapevoli”, centrale in alcuni percorsi di lavoro su di sé, tra cui in special modo quello proposto dal mistico greco-armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Nella psicologia, concetti affini, sebbene per lo più espressi con termini diversi, sono riscontrabili soprattutto nel lavoro di Carl Gustav Jung, o in quello di Roberto Assagioli e, più recentemente, nelle opere di Ken Wilber. Non sono invece a conoscenza di alcun interesse scientifico alla definizione del costrutto e alla sua operazionalizzazione, né pertanto di studi a riguardo. Forse perché la moderna hybris non tollera l’ipotesi che in quanto homo sapiens sapiens potremmo non essere consapevoli, né ha pertanto interesse a un tale studio.

Nel lavoro di Gurdjieff invece, rendersi conto di non essere presenti a se stessi è la condicio sine qua non affinché chiunque possa lavorare per ottenere quello he lui chiama il “ricordo di sé”. Diversamente, chi mai si impegnerebbe in un lavoro lungo, faticoso e senza garanzie di successo, nella speranza di ottenere qualcosa che già ritiene di avere? Gurdjieff in distinti periodi della sua vita formula diversi percorsi, a suo stesso dire non suoi ma ripresi da insegnamenti tradizionali, così schematicamente riassumibili: l’osservazione di sé, l’esecuzione di specifiche danze, la lettura di libri appositamente scritti per suscitare determinate reazioni emotive. Questi metodi “essoterici” ci viene riferito fossero affiancati da insegnamenti esoterici che, in quanto tali, erano tramandati unicamente a determinati discepoli e non ci sono pertanto noti.

Ad ogni modo, ai fini di questo lavoro è di interesse il primo percorso, esposto nel diario della sua esperienza con Gurdjieff dal filosofo Pëtr Dem’janovič Ouspensky (1947), poiché presenta ipotesi psicologiche che, per quanto originali, hanno affinità sia con quelle di Jung che con riflessioni e ipotesi di altri autori. In estrema sintesi, l’uomo vivrebbe abitualmente in una sorta di sogno a occhi aperti, nel quale sarebbe guidato da automatismi dei quali non è consapevole, e avrebbe l’illusione di essere un tutt’uno, benché in realtà composto da più “io” che si alternano al controllo dei centri psichici (principalmente, il centro intellettuale, il centro emozionale e il centro fisico o motorio) che per lo più lavorerebbero in modo improprio e disarmonico. Per prevenire l’angoscia derivante dalla consapevolezza di un’esistenza tanto misera, saremmo dotati di protezioni, da lui chiamate “respingenti” o “ammortizzatori”, che usualmente ci impedirebbero di vederci per come realmente siamo (se rimossi tutti insieme, secondo Gurdjieff, impazziremmo, motivo per cui è necessario un percorso di rimozione graduale).

L’esposizione del raffinato pensiero di Gurdjieff meriterebbe maggiore approfondimento, tuttavia, quantomeno a chi ha famigliarità col pensiero di Jung, già questi pochi elementi possono suggerire delle analogie. Per Jung, gli antagonisti dell’io sono i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che elicitano risposte automatiche, sovente inconsapevoli e indesiderate; la nostra visione della realtà è filtrata dalla personale dimestichezza con ogni funzione psichica (pensiero, sentimento, intuizione, sensazione); e l’individuazione, ovvero il percorso che porta a diventare individui, passa dalla consapevole integrazione. Nelle sue parole: “La psicologia sa che si possono rendere innocue o perlomeno tenere in scacco certe pericolose forze inconsce, quando l’individuo riesca a renderle consce, cioè ad assimilarle mediante un processo di comprensione e a integrarle nella totalità della personalità.” (Jung, 1945, p.52). Mentre il concetto di “respingenti” trova una sua analogia nei “meccanismi di difesa”, trasversali a tutta la psicoanalisi. Ma per chi lo conosce il pensiero di Gurdjieff trova affinità anche in altri ambiti della psicologia, ogniqualvolta si occupa di azioni non consapevoli (Tangocci, 2019).

Conclusioni

Nei confronti delle moderne forme di manipolazione mediate dai social network, vista la deliberatamente induzione di dipendenza, ancor più che nel difendersi da ogni altra forma di manipolazione, il primo indispensabile passo è riconoscere l’esistenza del rischio e del non esserne immuni. Le testimonianze, riportate nel documentario The Social Dilemma, affermano chiaramente che neppure conoscere il funzionamento di tali meccanismi, al punto di averli personalmente progettati, protegge dal subirne gli effetti. Come nei confronti di una sostanza d’abuso, un conto è sapere che fa male (quale fumatore non sa che fumare fa male?), un altro è comprendere che fa male, e pertanto evitare, smettere, o quantomeno limitare l’uso. Credere che quanto esposto sia un’esagerazione, o che comunque non riguardi noi, ma solo altri più ingenui che si lasciano facilmente abbindolare da tali dinamiche, è la corsia preferenziale per diventare noi per primi facilmente manipolabili.

Ma questo non è che l’inizio del percorso, poiché diversamente da una sostanza di abuso che può essere più o meno facilmente evitata, la tecnologia oggigiorno è difficilmente evitabile, e spesso non lo sono neppure i social network, di cui alcuni abbisognano anche per uso professionale, oltre che per la gestione della vita sociale, che è tristemente sempre più spostata online. Tra i principali consigli che gli stessi operatori della Silicon Valley rispettano strettamente, come testimoniato anche dal documentario, c’è l’evitare che tali tecnologie siano accessibili ai bambini e limitarle agli adolescenti. Ma ciò non è certo possibile se gli adulti non prendono consapevolezza dei rischi e, per primi, riducono drasticamente il tempo trascorso su queste piattaforme. A tal fine è necessario che la permanenza stessa sia sempre attenta e critica, consapevole del desiderio di gratificazione e del conseguente rischio di modificcare il proprio comportamento per ottenerla, e che, nei limiti del possibile, si sottoponga a verifica ogni contenuto, a prescindere da quanto la fonte sia o meno ritenuta affidabile e/o in linea con la propria visione del mondo.

Sull’importanza di sviluppare un pensiero autonomo, da qualunque fonte, vorrei concludere con le parole di Jung tratte dal suo saggio “Commenti sulla storia contemporanea”, nel quale esplora come sia stato possibile che “il popolo più industrioso, efficiente e intelligente d’Europa [sia caduto] in uno stato mentale delirante”, ovvero nei crimini del Nazismo:

si resta talmente impressionati dalla forza di suggestione della retorica da megafono che si è inclini a ritenere di poter utilizzare anche per uno scopo buono questi mezzi cattivi, vale a dire l’ipnosi di massa mediante appelli ‘infuocati’, parole ‘energiche’, o sermoni capaci di toccare i cuori. […] devo tuttavia ribadire che la persuasione delle masse in vista di un fine che si considera un bene compromette il fine stesso, poiché in fondo non è altro che propaganda psicologica, la cui efficacia si affievolirà nuovamente alla prima occasione. Gli innumerevoli discorsi e articoli sul ‘rinnovamento’ sono inefficaci, si risolvono in un chiacchiericcio che non fa male a nessuno e che annoia tutti quanti. Affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo. Il bene è un dono e un’acquisizione individuale; in quanto suggestione di massa è una mera ubriacatura che non ha mai avuto valore di virtù. Il bene può essere raggiunto solo dal singolo come sua prestazione individuale. Non c’è massa che possa farlo per lui. Il male invece richiede una massa per nascere e continuare a esistere. (Jung, 1945, pp. 52-53).

Riferimenti bibliografici

Devoto, G. (1966). Avviamento alla etimologia italiana. Firenze: Le Monnier.

Jung, C. G. (1945). Il concetto di inconscio collettivo. tr. it. (1986) Opere, vol. 10/2. Torino: Bollati Boringhieri.

Orlowski, J. (2020). The Social Dilemma [Film]. Netflix.

Ouspensky, P., D. (1947). In Search of the Miraculous: Fragments of an Unknown Teaching. London: Routledge, 1947.

Tangocci, B. (2019). Inconsci e coscienza: un confronto tra distinte prospettive psicologiche. State of Mind. https://www.stateofmind.it/2019/09/inconscio-coscienza-psicologia/

Tangocci, B. (2020). La manipolazione dell’informazione ai tempi del Coronavirus. Piesse (www.rivistapiesse.it) 6 (9-1). https://rivistapiesse.it/store/articoli/Tangocci_manipolazione.pdf

Vosoughi, S., Roy, D., & Aral, S. (2018). The spread of true and false news online. Science, 359(6380), 1146–1151. https://doi.org/10.1126/science.aap9559

Whitten-Woodring, J., Kleinberg, M. S., Thawnghmung, A., & Thitsar, M. T. (2020). Poison If You Don’t Know How to Use It: Facebook, Democracy, and Human Rights in Myanmar. The International Journal of Press/Politics, 25(3), 407–425. https://doi.org/10.1177/1940161220919666

Zuboff, S. (2019). The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power. New York: PublicAffairs.

22 set 2020

Mio sito professionale

Online il mio nuovo sito professionale. Nella pagina articoli è possibile leggere molte delle mie pubblicazioni scientifiche. Buona visione a tutti!


30 ago 2020

Il potere dell'illusione

 


In un numero dell'edizione italiana di Topolino, del mese di dicembre 1982, viene pubblicata per la prima volta la storia "Topolino e la Spada di Ghiaccio", da cui è tratta la presente vignetta. Per una serie di rocambolesche coincidenze, il placido Pippo viene scambiato per il cugino di Alf, eroe di altri mondi che in un tempo remoto sconfisse il Principe delle Nebbie relegandolo in una prigione per l'eternità. Sennonché un cataclisma lo ha liberato e nuovamente domina crudelmente col potere della "Grande Persuasione".

Pippo accetta il ruolo che gli viene richiesto cui si rivela particolarmente adatto poiché non credendo alle magie del nemico le scioglie come neve al sole. Prima fa scomparire degli pseudo-draghi volanti, poi del fuoco tra i ghiacci (nella vignetta), semplicemente "non credendoci". Il Principe delle Nebbie un tempo aveva il potere di materializzare le sue emanazioni ma adesso gli rimane solo quello di creare delle illusioni, in grado di atterrare dei rinoceronti, poiché loro non sanno che si tratta di un'illusione, ma impotenti nei confronti di chi le riconosce come tali.

Lascio ai lettori ricavare la morale da questa storiella e la sua utilità riguardo alle cronache del 2020.

25 ago 2020

Messaggio ai membri della Resistenza

I destinatari di questo messaggio sono consapevoli della gravità della situazione e stanno facendo del loro meglio per fronteggiarla. Molti di noi ritengono che quanto stiamo vivendo sia stato organizzato nel corso di decenni, o anche più, e che stiamo assistendo all'inizio di una raffinata strategia che mira ad instaurare un regime totalitario mondiale. Gli artefici di tale progetto criminale sarebbero, per alcuni determinate forze politiche, per altri antiche élite che da tempo dirigono il mondo da dietro le quinte, per altri ancora forze spirituali avverse (ad esempio Arimane secondo gli antroposofi), o anche forze spirituali favorevoli che offrono in tal modo la possibilità di svegliarsi. Sia come sia, le forze in campo sono sicuramente imponenti e molti temono che non siano arrestabili. Malgrado ciò sappiamo e sentiamo di dover fare tutto quanto è in nostro potere. Non possiamo né dobbiamo tirarci indietro, fosse anche davanti a una battaglia che potremmo non vincere. A meno di volere anche noi ripeterci che “andrà tutto bene” non dobbiamo ignorare questa eventualità. Ma se così fosse perché combattere?

Ritengo che in una tale terribile prospettiva, quando tutto potrebbe sembrare perduto, dovremmo ancora difendere un ultimo fondamentale confine, del quale voglio parlarvi. Tra le migliori rappresentazioni di tale futuro distopico rientra certamente l’opera di George Orwell. Come molti ricorderanno, in 1984 il partito non si accontenta che il protagonista Winston Smith acconsenta ad affermare che “due più due fa cinque”, bensì esige che creda che “due più due fa cinque”. Perché per ottenere ciò un potere totalitario oramai incontrastato sottopone un prigioniero non di rilievo ad un lungo programma di tortura, invece di limitarsi ad ucciderlo? Anche il più materialista dei regimi sembra temere la forza di un’idea che non si piega.

In un recente fantasy movie russo, Abigail, una finta pandemia è il pretesto per individuare persone in realtà dotate di poteri sovrannaturali e isolarle, imprigionarle, ma non ucciderle poiché in tal caso altri ne sarebbero dotati. Come i poteri in un film fantasy, le idee sono eterne e scompaiano solo se gli esseri umani le rinnegano. Ma se questa prospettiva fosse sentita troppo fantasiosa o poco soddisfacente, sappiate che non è l’unica. Un cristiano potrà ricordarsi della frase di Matteo 24, 13, “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato”. Ma anche chi comprende perché Giordano Bruno può dire all’inquisitore “Avete più paura voi ad emanare questa sentenza che non io nel riceverla” certo non si arrenderà. Perfino un nichilista sopraffatto dall’assurdità di una situazione paragonabile a quella del mito di Sisifo, condannato per l’eternità a spingere in salita un masso che inesorabilmente ricade a valle prima di raggiungere la sommità, può tenersi strette le frasi che concludono l’omonimo saggio di Camus: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

Quale che sia il proprio appiglio, l’essenziale è difendere quest’ultimo baluardo a qualsiasi costo. L’ultima vera battaglia si combatte di fronte alle pressioni a rinnegare le proprie idee, ed è essenziale, per se stessi e per l’intera società, che ciò non accada, anche se tutto dovesse sembrare perduto. Anzi, a maggior ragione in tale caso, quello sarà “un buon giorno per morire”. Buon combattimento a tutti!

24 ago 2020

Coraggio di vivere o paura di morire


Di Benedetto Tangocci*, Flaminia Elettra De Rossi*, Marina Thellung*, Rosanna Camerlingo*, Patrizia Scanu* e Marina Bonadeni*.

*Firmatari https://comunicatopsi.org/, membri attivi del gruppo di lavoro Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia.

“Chi ha paura muore ogni giorno,

chi non ha paura muore una volta sola.”

Paolo Borsellino


La citazione del grande magistrato italiano (parafrasi di un passo del Giulio Cesare di Shakespeare) racchiude in due poetiche affermazioni l’alternativa tra il lasciarsi sopraffare dalla paura e il riuscire superarne il potere paralizzante. Naturalmente la morte quotidiana si colloca su un piano diverso rispetto alla morte fisica, nondimeno il valore ad essa attribuito non è sentito affatto inferiore. Molte altre citazioni avrebbero potuto aprire questo articolo con analoga efficacia, citazioni tratte dalla narrativa, dal cinema o da grandi biografie, come in questo caso. Ma che cosa ha da dire a proposito la psicologia, che cosa sappiamo sulla qualità della vita conseguente al vivere nella paura oppure – nelle parole di Amleto – “to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them”?


La psicologia ha molto da dire, e molto ha detto, sulla paura, sullo stato ansiogeno conseguente, sulle fobie e sulle conseguenze a lungo termine di un evento traumatico (PTSD). Sappiamo che la paura detiene un’importante funzione evolutiva, ci allerta rispetto a un pericolo e attiva rapidamente le risorse per fronteggiarlo immediatamente (fight, flight, or freeze). Secondo il noto neurobiologo Joseph LeDoux (1996), uno stimolo percettivo (ad esempio una canna da irrigazione in giardino) raggiunge il talamo che smista il segnale “grezzo” sia all’amigdala che alla corteccia sensoria. La prima via è rapida, ma imprecisa e se lo stimolo può sembrare pericoloso (ad esempio un serpente) mette immediatamente in allerta, suscitando una rapida risposta. In alcuni casi una frazione di secondo può fare la differenza. La seconda via è più lenta, ma elabora accuratamente il segnale, e riconoscendolo correttamente (no, è solo una canna da irrigazione), può interrompere lo stato di allerta, se riconosciuto come improprio. La paura ci è quindi necessaria in limitate e specifiche situazioni. Sappiamo tuttavia anche che se l’attivazione indotta dalla paura permane a lungo termine, o diviene cronica, non solo non è più adattiva, ma comporta numerosi effetti negativi, sia psicologici che somatici. La risposta emotiva è biologicamente funzionale unicamente di fronte ad un pericolo immediato, urgente e di breve durata.


Nondimeno la branca della psicologia che si occupa delle strategie di persuasione raccomanda come altamente funzionale per favorire l’adesione a comportamenti socialmente desiderati, il ricorso a tecniche che sfruttano l’induzione alla paura, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?


Quanto invece alla capacità di gestire e superare la paura, che comunemente chiamiamo “coraggio”, che cosa ne sappiamo? Il termine è facilmente comprensibile a tutti, sebbene come per molte parole di uso comune non sia così facile offrirne una definizione. Già nel Lachete, Platone fa chiedere a Socrate, “Prova dunque a dire cos’è il coraggio?”, iniziando così la ricerca di una definizione che il dialogo non arriva a formulare, sebbene senta come essenziale, poiché solo “dopo potremo indagare come darlo ai giovani, per quanto possibile, attraverso l’esercizio e lo studio”. Tuttavia una definizione sufficientemente condivisa (che sarà argomento del prossimo paragrafo) dovrà attendere ancora molti secoli. Malgrado ciò il coraggio è stato centrale in molte influenti visioni: viene considerato da Platone nella Repubblica come caratteristica essenziale della classe dei guardiani; da Aristotele nell’Etica Nicomachea come prima delle virtù etiche; e successivamente, col nome di Fortezza (Fortitudo), annoverato tra le virtù cardinali da Sant’Ambrogio, da Sant’Agostino e da Tommaso d’Aquino.


Il coraggio nella psicologia

Solo recentemente la psicologia si è occupata di coraggio, soprattutto grazie ad esponenti della cosiddetta “Psicologia Positiva”. Come ai tempi di Socrate, si è riproposta così la questione di trovare una definizione del costrutto. Tra le molte, tra le più adottate, e ad avviso di chi scrive tra le più convincenti definizioni di coraggio, troviamo: “(a) a willful, intentional act, (b) executed after mindful deliberation, (c) involving objective substantial risk to the actor, (d) primarily motivated to bring about a noble good or worthy end, (e) despite, perhaps, the presence of the emotion of fear.” (Rate et al., 2007, 95).


Riguardo ai punti (a) e (b), altri autori (Pury & Starkey, 2010) distinguono tra una dimensione di stato, che come nella definizione appena riportata giunge al coraggio attraverso un processo consapevole, e una dimensione di tratto di personalità, più costante e inconsapevole. Tuttavia, e sebbene indubbiamente esistano persone più inclini ad atti di coraggio, il costrutto così definito è risultato vago e poco utile alla ricerca, che ha perciò prevalentemente preferito guardare al coraggio come a un processo.


Relativamente al punto (e), Rachman (2010) afferma che “approaching a potentially dangerous situation in the absence of subjective and physiological indices of fear is regarded as fearlessness, not courage.” (ivi, 93). Tuttavia la mancanza di paura può essere congenita; può essere pura incoscienza; ma può anche essere conquistata tramite ripetuti atti di coraggio in situazioni analoghe. L‘autore, studiando professionalità esposte a forti rischi, conclude che “yes, it is possible for people to attain the noble quality of courage by study and training” (ivi, 105) e che “the successful practice of courageous behavior leads to a decrease in subjective fear and finally to a state of fearlessness.” (ivi, 106). Pertanto la precisazione di Rate che la paura può essere, o meno, presente, appare preferibile ad altre definizioni che ne sottolineano invece la necessaria presenza.


Più delicata è la parte (d) della precedente definizione. Infatti la percezione di “noble good or worthy end” è altamente soggettiva e talvolta opinabile. A titolo di esempio:

running into a burning building to save a child is courageous; running into a burning building to save a favorite computer is probably not. What about running into a burning building to save a pet? The appraised courageousness of this action probably depends on the observer’s opinion about pets. (Pury & Starkey, 2010, 83)

La percezione di un atto di coraggio o di codardia può tuttavia ulteriormente essere complicata. Supponiamo, ad esempio, di avere ricevuto la diagnosi di un grave tumore ad uno stato avanzato e il suggerimento di intraprendere un percorso chemioterapico che potrebbe ritardare il decesso. Immaginiamo uno scenario in cui dover scegliere tra la prospettiva di un anno di vita in cui dover convivere con frequenti ospedalizzazioni e forti nausee o quella di pochi mesi trascorsi nel luogo che più ci aggrada, liberi da effetti collaterali. Quale scelta sarebbe coraggiosa e quale no? La risposta è inevitabilmente soggettiva. Probabilmente un materialista riterrebbe codardia sottrarsi alle terapie e coraggio affrontarle. Altri tuttavia potrebbero ritenere codardia tentare di prolungare la mera esistenza fisica a discapito della qualità della vita da loro ritenuta prioritaria.


Rimanendo strettamente legati alla definizione di coraggio avrebbero entrambi ragione, dal loro punto di vista. Come nell’esempio dell’edificio in fiamme, siamo tutti facilmente concordi che rischiare la vita per salvare un bambino sia un atto coraggioso, come pure che rischiarla per salvare un computer sia folle; ma rischiarla per salvare un animale è coraggioso o folle? E non farlo è saggio o vile? Poiché la risposta è soggettiva, lo è inevitabilmente anche la percezione di chi agisce, i cui vissuti soggettivi di coraggio o di codardia sono riconoscibili come tali unicamente da chi ne condivide i valori. Se dall’esterno è quindi sempre possibile il fraintendimento del vissuto soggettivo, per l’individuo è tuttavia più semplice distinguere tra scelte effettuate seguendo i suggerimenti della paura o scelte compiute per impulso del coraggio. Lasciamo quindi all’individuo il compito di giudicare se stesso con sincerità e passiamo a valutare gli esiti del vivere consigliati dalla paura o dal coraggio.


Conseguenze della paura o del coraggio

Come già scritto nell’introduzione, la paura è un’emozione necessaria alla rapida risposta in una situazione di pericolo immediato, ma altamente dannosa se prolungata nel tempo. Sulle conseguenze, sia psicologiche che fisiche, dello stress provocato da stati di paura intensi e/o duraturi sono stati scritti migliaia di libri e di articoli. Tra i possibili esiti psicologici troviamo lo sviluppo di depressioni, ansie, fobie, attacchi di panico, disturbo da stress post traumatico; e per ognuno di questi aspetti esiste una nutrita letteratura a riguardo. Quanto ai possibili esiti somatici, occorre innanzitutto osservare che, sebbene l’ipotesi che uno stato emotivo possa influenzare dinamiche fisiologiche sia stata osteggiata per anni, e non sia ancora stata pienamente recepita dai medici meno aggiornati, la ricerca ne ha chiaramente dimostrato la validità oramai da decenni. Con la nascita della PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia), disciplina che indaga le interazioni tra psiche, sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono arrivate le prime verifiche sperimentali, e ad oggi si possono considerare appurati almeno due principali percorsi biologici tra il vissuto psicologico e la risposta somatica (Ader, 2006): l’asse HPA (hypothalamic–pituitary-adrenal – ipotalamo-ipofisi-corticale del surrene), che stimola la produzione di cortisolo da parte della corticale del surrene; ed il percorso SAM (sympathetic-adrenal medullary – simpatico-adrenomidollare) che lega il locus coeruleus all’attività del sistema neurovegetativo simpatico e, tramite essa, alla produzione di catecolamine da parte della midollare del surrene (Kern, Rohleder, Eisenhofer, Lange, & Ziemssen, 2014). Stati particolarmente intensi o prolungati di paura comportano le sopracitate reazioni fisiologiche da stress e col tempo l’iperattivazione della produzione ormonale può portare a patologie anche gravi.


Lo studio degli effetti del coraggio sulla qualità della vita è invece ancora agli inizi e consta di pochi studi. Tra questi si annoverano principalmente quelli condotti nell’ambito dell’applicazione della Psicologia Positiva al mondo del lavoro, molti dei quali concordano nel concludere che “courage was found to mediate the relationship between psychological capital and flourishing [letteralmente “fiorire”: prosperare]” (Santisi et al., 2020, 9) e che “this is probably linked to the fact that courage was intrinsically constituted and aimed at a noble purpose, and this characteristic has a powerful effect on flourishing” (ibidem). Una ricerca sulla relazione tra coraggio, benessere psicologico e sintomi somatici nella popolazione generale (Keller, 2016) rileva che “higher courage scores were found to predict lower somatic symptom scores” (ivi, 62) e che “courage was shown to significantly predict PWB [Psychological Well-being]” (ivi, 64). Non ci risultano studi psicologici più approfonditi sul tema. Ciò nonostante, poiché il coraggio è, per definizione, un atto intenzionale che comporta per chi lo esegue un rischio oggettivo e sostanziale, implica necessariamente la capacità di gestione della paura, se presente, e pertanto sembra lecito affermare che il coraggio sia in grado di proteggere dai rischi sopra esposti connessi con uno stato di paura particolarmente intenso o prolungato. Infine, per quanto non ci risulta siano stati studiati gli effetti derivanti dal vivere – o anche solo dal leggere – sensazioni analoghe a quelle trasmesse dalla frase in epigrafe a questo testo, credo, e spero, che ognuno abbia provato almeno una volta in vita sua l’emozione correlata e sia in grado di ricordarne la forza pervasiva che ne deriva, anche senza doverne leggere in una ricerca scientifica.


Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia

Nel particolare momento storico legato alla primavera/estate 2020, in Italia, un gruppo di colleghi psicologi e psichiatri ha sentito il bisogno di sottoscrivere un comunicato di allarme (https://comunicatopsi.org/) relativo gli aspetti psicologici della gestione dell’emergenza in atto. Successivamente alcuni di noi hanno ritenuto necessario dare vita ad un gruppo che coordinasse attivamente le iniziative scaturite da tale analisi, che si è dato il nome di Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia. L’alternativa tra lasciarsi sopraffare dalla paura o coltivare il coraggio è tematica da noi sentita come centrale. Riteniamo che oggi più che mai il coraggio sia indispensabile per recuperare la serenità e la fiducia in sé e negli altri.


Per la sua etimologia “coraggio” rimanda al cuore. Solo chi ama ha coraggio. Per questo l’amore è l’antidoto alla paura. “Coraggio!” è anche una comune esortazione a proseguire nonostante le difficoltà, i piccoli timori o i grandi sconforti, a confrontarsi con i propri limiti e a crescere ogni giorno di più, a rincuorarsi. Per fiorire infatti occorre innanzitutto trovare il cuore di uscire dalla propria cosiddetta “comfort zone”, dove le comodità e le sicurezze rischiano di essere al contempo mura via via sempre più soffocanti. A volte a tal punto che per tenere fuori i pericoli ci troviamo a respirare più anidride carbonica che ossigeno, come avviene indossando le mascherine. Rinunciare ai più elementari rapporti umani sembra a molti indispensabile per proteggersi, forse perché come scriveva Michele Lauro (2016) “il marketing della paura ha un ufficio stampa molto efficiente: serve per aumentare il consenso, esercitare il controllo, assumere il potere”, e così troppo facilmente rischia di farci dimenticare che “il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcosa di più importante della paura” (frase attribuita a Ambrose Redmoon).


Poiché il coraggio è avere cuore, ma non solo: il coraggio è lanciare il cuore oltre l’ostacolo, quando non si sa cosa ci sarà dopo. Il coraggio sarà dire “No!” quando vorranno zittire la nostra umanità; quando vorranno far sparire la coscienza come un ornamento inutile. Il coraggio sarà pagare un prezzo, se ci sarà da pagarlo, per un mondo migliore che non vedremo. Il coraggio è quello di Antigone che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del re di Tebe che l’ha vietata con un decreto. Per la sua disobbedienza morirà murata viva in una grotta, ma per Antigone la legge divina è superiore alle leggi umane. Oggi la chiameremmo “disobbedienza civile”, dal titolo del celebre saggio di Herry David Thoreau che ha ispirato, tra gli altri, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, o Nelson Mandela. A ben vedere si potrebbe affermare che ogni conquista civile, dall’abolizione della schiavitù al suffragio universale, è in debito verso individui che hanno avuto il coraggio di sfidare leggi umane accettate dai più, ma da loro ritenute inique in virtù di principi considerati superiori, divini o naturali che siano.


Inoltre, accanto al coraggio dei grandi leader che hanno fatto la storia e combattuto per i diritti civili, ci sono forme di coraggio “più silenziose”, meno evidenti, ma altrettanto importanti. Il coraggio di non arrendersi e continuare a sperare. Il coraggio di non fermarsi alla superficie e di approfondire tutto, accettando in tal modo di cambiare anche se stessi. Il coraggio di affrontare la solitudine di coloro che percorrono territori ancora inesplorati. Il coraggio di chi addomestica la paura accogliendo il prossimo con amore. Il coraggio di chi sente la responsabilità verso i propri ideali, verso i propri figli e verso il mondo che un domani lasceremo loro. Non vogliamo risvegliarci un giorno e scoprire che ci è mancato il coraggio necessario quando era ancora possibile fare tutto ciò, poiché crediamo che – come scrisse il poeta Robert Frost in Servant to Servants – “the best way out is always through”. Oggi occorre infatti soprattutto il coraggio della consapevolezza che ripetere a se stessi il mantra “andrà tutto bene” è solo una forma di rassicurazione, mentre la posta in gioco è proprio la qualità della vita, più importante della stessa sopravvivenza. Questa consapevolezza è necessaria giacché – come nel nome della celebre acquaforte di Francisco Goya – “il sonno della ragione genera mostri”, e questo non è il momento di obbedire e “restare a casa”, bensì quello di svegliarsi, attivarsi e riunirsi.


Conclusioni

Gli studi sul coraggio come costrutto psicologico sono ancora agli inizi e ci auguriamo di avere contribuito a fare il punto della situazione. Tuttavia, il coraggio è virtù morale da molti secoli, centrale e trasversale alla religione, all’arte, alla letteratura e al sentire comune. Coltivarlo protegge dai pericoli legati al vivere prolungati stati di paura e migliora la qualità della vita. Purtroppo invece, come afferma in una recente intervista (Amorosi, 2020) Stefano Fais, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità, “stanno gestendo il Coronavirus con la paura. Ma la paura è una malattia che indebolisce e rende più fragili. Così masse di persone vengono rese facilmente prede proprio dei virus”. Il distanziamento sociale e il timore del prossimo percepito come possibile untore comportano pericolose conseguenze psichiche e psicosomatiche che nel migliore dei casi sono state completamente ignorate.


Oramai da vari decenni sappiamo che il benessere psicofisico dipende in gran parte dalla qualità delle relazioni interpersonali. Innumerevoli studi, svolti da autori di varie discipline, lo hanno ampiamente dimostrato e interi orientamenti psicoterapeutici, come la Psicanalisi Relazionale o la Psicoterapia Interpersonale, basano l’efficacia dei loro interventi su questa consapevolezza. Non riteniamo pertanto necessario approfondire questa conclamata evidenza, riguardo la quale rimandiamo all’amplissima letteratura esistente. Peraltro, che la qualità delle relazioni sia parte imprescindibile di quella che chiamiamo “qualità della vita”, è risaputo anche in ambiti non psicologici, e da ben prima che la psicologia lo abbia dimostrato. Azioni un tempo quotidiane, come sorridere a viso scoperto, stringersi la mano, abbracciarsi o accogliere l’altro a una distanza di prossimità, sono socialmente, evolutivamente e psichicamente così importanti da rendere necessario che gli effetti della loro soppressione siano dettagliatamente analizzati in un prossimo lavoro.


Qui desideriamo concludere evocando l’immagine del celebre dipinto La Danse II di Henri Matisse, e riportando il commento che l’opera ha suscitato in Derio Olivero (2019), vescovo di Pinerolo: “L’essenza della vita sta nel ‘tenerci per mano’, sta nel creare un cerchio. Tutto il resto scompare. Sotto questo cielo, sulla nostra terra, la cosa più essenziale è riuscire a prenderci per mano.” (ivi, p. 18). Non sappiamo se in questi mesi il vescovo abbia mutato opinione o se adesso riscriverebbe la stessa frase. Sappiamo però che per noi, oggi, è quanto mai urgente riscoprire questa dimensione e soppesare con il necessario coraggio che cosa stiamo perdendo in cambio dell’illusione della sicurezza. Per non correre il rischio di cui ci ha avvertiti Benjamin Franklin (1755): “Those who would give up essential Liberty, to purchase a little temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety”. Di questo coraggio abbiamo urgente bisogno, per la nostra salute individuale, per quella della società in cui viviamo e per quella della società che lasceremo ai nostri figli.


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Riferimenti Bibliografici

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19 lug 2020

La dittatura del conformismo

"Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.”

Giorgio Gaber, 1998 – Un’idiozia conquistata a fatica.

Nei confronti di alcune tematiche “calde” e attuali è facile osservare che una qualche prospettiva diviene spesso così diffusa tra la maggioranza da risultare egemone e lasciare poco spazio ad altre interpretazioni, che sovente vengono ghettizzate se non addirittura criminalizzate. Tanto la cronaca quanto la storia sono piene di esempi di veri e propri arroccamenti di una parte dell’intellettualità – con il placito di una maggioranza più o meno passiva – nei confronti di specifiche opinioni, che talvolta sono giunti a portare gli “eretici” sul rogo. Oggi  per gli eretici (dal greco, αἱρετικός, [colui] che sceglie) la prassi non è più il rogo ma la censura sotto forma di rimozione dai social, e la gogna non è più fisica ma solo mediatica. Nondimeno la critica contro la dissidenza è spesso feroce. Come mai relativamente ad alcuni argomenti una così ampia maggioranza segue acriticamente il cosiddetto mainstream (letteralmente: flusso principale)?

La spiegazione abitualmente fornita da chi concorda con la narrativa dominante è che essa è tale in quanto giusta. Argomentazione piuttosto fragile e autoreferenziale ma soprattutto, la storia ci insegna, fallace. Sappiamo dalle testimonianze del periodo che durante il Fascismo il regime godeva di un consenso ampiamente diffuso, spesso sincero, anche se già alla vigilia della Liberazione era diventato difficile trovare chi si dichiarasse tale. E ben oltre i confini di una nazione era diffusa la convinzione che la razza bianca fosse superiore, nonché tra essa superiori i portatori dei geni “migliori”. L’eugenetica non è stata invenzione tedesca ed anche se solo i nazisti si sono spinti all’organizzato sterminio di nati deformi e malati di mente (prima di passare agli ebrei) le idee eugenetiche erano condivise dalla maggior parte degli intellettuali europei e statunitensi. No, l’ampia diffusione di un’idea non è né logicamente né fattualmente dimostrazione della sua veridicità, e crederlo è in effetti piuttosto ingenuo.

Naturalmente l’obiezione neppure comporta che l’opinione della maggioranza sia tout court sbagliata. In tutti i casi occorrerebbe un approfondimento critico e autonomo, che è esattamente ciò che manca e che viene anzi scoraggiato (“chi sei te per occuparti della tematica, che vuoi mai saperne?”). Ciò, unitamente alla potenza mediatica offerta dall’odierna tecnologia, favorisce l’affermazione di quello che, chi ne contesta l’intransigenza nei confronti delle posizioni dissidenti, chiama “Pensiero Unico”. Ma quali sono i meccanismi psicologici che ne portano all’accettazione dalla cosiddetta “maggioranza silenziosa”? Ritengo che se ne possano individuare a più livelli ed in questo breve lavoro mi propongo di esporli.

Normopatia


La tendenza a conformarsi alla maggioranza, trascurando lo sviluppo di un autonomo pensiero critico, è stata definita normopathy (normopatia) dalla psicanalista Joyce McDougall (1978). Christopher Bollas la definisce “the numbing and eventual erasure of subjectivity” (1987, p.135). Mentre lo psicologo Enrique Guinsberg  (2001, pp. 49-50) definisce il normopatico come:
aquel que acepta pasivamente por principio todo lo que su cultura le señala como bueno, justo y correcto no animándose a cuestionar nada y muchas veces ni siquiera a pensar algo diferente, pero eso sí a juzgar críticamente a quienes lo hacen e incluso condenarlos o a aceptar que los condenen.
(colui che accetta passivamente per principio tutto ciò la sua cultura gli indica come buono, giusto e corretto, non incoraggiandosi a mettere in discussione nulla e spesso nemmeno a pensare qualcosa di diverso, ma giudicando criticamente coloro che invece lo fanno, giungendo a condannarli o ad accettare che siano condannati.)
Naturalmente gli autori citati ritengono patologico (normopatico) non la semplice concordanza con le opinioni egemoni, bensì l’acritico conformarsi che talvolta potrebbe esserne alla base. Lo psicanalista Christophe Dejours (2000) paragona il concetto a quello, ben noto, di “banalità del male”, sviluppato dalla Arendt (1963). In Italia un parallelo potrebbe essere visto nelle idee esposte da Don Milani in “L’obbedienza non è più una virtù” (1965).

L’ipotesi, e la conseguente preoccupazione, che il conformismo possa trovare le sue origini in una personalità scarsamente sviluppata è chiaramente pertinente una visione psicologica che in modo allargato potremmo definire umanistica e che attinge le sue origini in ciò che Jung chiamava Processo di Individuazione, ma che oggi, sia pure con termini diversi, troviamo trasversale a più orientamenti. Si tratta di una preoccupazione chiaramente non peculiare alla prospettiva psichiatrica, organicista, o a quegli orientamenti che identificano la patologia come uno scostamento dalla media o una mancata capacità adattiva, il cui conseguimento è visto come principale, se non unico, obiettivo della terapia. Chi scrive tuttavia afferisce al primo gruppo e pertanto con coerenza si preoccupa dei rischi collaterali a un eccessivo conformismo.

Sulla normalità


Dobbiamo a Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, sia la nascita dell’Darwinismo sociale e dell’Eugenetica, che della biometria e della psicometria. Mentre le prime sono almeno ufficialmente screditate e conseguentemente estinte, le seconde godono di ottima salute e sono alla base, tra l’altro, dell’epidemiologia, della farmacologia, della diagnosi medica e di alcune discipline psicologiche. Galton osservò che la curva di distribuzione di probabilità individuata da Abraham de Moivre e resa celebre da Carl Friedrich Gauss (conosciuta come gaussiana in onore di quest’ultimo) oltre a descrivere la distribuzione di errori casuali (come studiato da Gauss) si prestava a descrivere la distribuzione dei più svariati fenomeni biologici e comportamentali, a partire dall’altezza di un gruppo di individui. Tanto che da allora tale distribuzione prende anche il nome di “Normale”.

Tali studi daranno ampio sviluppo alla statistica, fino a portarla oggi allla base delle discipline scientifiche, sia fisiche, che mediche, che sociali. Senza addentrarsi nei dettagli (comunque noti a chiunque abbia una laurea scientifica) basterà qui ricordare che si tratta di una distribuzione di probabilità (osservata, e pertanto attesa) della variabilità di fenomeni misurabili su scala continua, come appunto, a classico esempio, l’altezza di un gruppo di soggetti. Mi limito ad accennare che in virtù dei Teoremi del Limite Centrale la distribuzione gaussiana può essere considerata la migliore approssimazione anche nello studio di altre distribuzioni e che ad essa in psicometria vengono ricondotti, attraverso l’approssimazione continua di una scala Likert, anche valori che propriamente sarebbero discreti.

Ritengo che da quanto fin qui esposto si possano trarre alcune considerazioni inerenti il conformismo, a quanto mi risulta inedite. Innanzitutto l’adozione così estesa di un tale modello matematico ai più vari aspetti biologici e comportamentali implica che sia ritenuto una valida descrizione della realtà. Ovvero che i valori osservabili dei più svariati fenomeni effettivamente si concentrano in larga maggioranza intorno ad un valore medio con differenze nei due estremi (di basso o alto; come pure di ritardo mentale o genialità; di mancata reazione o iper reazione ad un farmaco; e di molti altri esempi) sempre più minime al distanziarsi dal valore medio osservato, cioè “normale”. Ciò farebbe supporre che, similmente a migliaia di situazioni in cui si osserva così essere, anche la tendenza della maggioranza degli individui a conformare le opinioni ad una visione “normale” abbia in qualche modo della basi naturali.

Ne conseguirebbero due implicazioni. La prima deriva dalla spiegazione scientifica del perché vari fenomeni si distribuiscano in tale modo, che è di tipo evoluzionistico (non dimentichiamo che la biometria nasce da Galton): i valori medi sarebbero i più adattivi alla specifica situazione ambientale e/o sociale ed aumenterebbero pertanto la fitness (il potenziale di sopravvivenza e riproduzione) dei singoli individui; al contempo però con l’esistenza di soggetti che esprimono valori che si distaccano fortemente dalla media la specie si garantirebbe una continuità nel caso in cui il contesto dovesse variare sensibilmente ed i valori più diffusi non rilevarsi pertanto più adattivi. Stando così le cose, in tempi normali la migliore risposta sarebbe il conformismo, ma in tempi eccezionali, o di emergenza, ciò potrebbe risultare deleterio e solo un’eventuale dissidenza potrebbe salvare dalla totale disfatta.

La seconda considerazione concerne invece l’implicito, e spesso inconscio, passaggio da mera constatazione di frequenza di un valore alla sua colorazione qualitativa. Complice ne sono certamente le plurime accezioni del termine “normale”, che oltre al significato statistico sopraesposto, ha quello di “conforme alla norma”, ma anche quello di “sano, giusto”. Accade quindi nella fattispecie che da una neutra statistica descrittiva, passando tramite una statistica inferenziale, quasi senza accorgersene si giunga ad identificare il valore medio osservato come quello desiderabile. Il paradosso tuttavia consiste nel fatto che se l’osservazione fosse effettuata in una società tutta malata, tale malattia da mera normalità statistica si ergerebbe a valore desiderabile; se una società praticasse abitualmente stupri o atti di pedofilia, tali atti oltre che diffusi rischierebbero di diventare normali anche nell’accezione di desiderabili; se una società fosse per lo più analfabeta, o magari analfabeta funzionale, come molti italiani sembrano essere (Italiaindati, n.d), ciò potrebbe diventare anche segno di essere ben adattati.

Psicologia sociale e conformismo


Che le precedenti tesi offrano una valida chiave di lettura al fenomeno del conformismo, o meno, la psicologia sociale ci dimostra oltre ogni dubbio che il fenomeno del conformismo esiste ed è ampiamente diffuso. Tra i pionieri dello studio del fenomeno, lo psicologo Solomon Asch, condusse una serie di studi (1955) nei quali presentava ad un gruppo di soggetti 3 linee di diversa lunghezza chiedendo quale fosse uguale ad una quarta di riferimento. La differenza tra le linee era sostanziale e facilmente riconosciuta dai soggetti nella situazione di controllo. Nel gruppo sperimentale tuttavia alcuni partecipanti complici dello sperimentatore indicavano come corrispondente una linea chiaramente diversa. A causa di questa pressione sociale ben il 36,8% dei soggetti dell’esperimento se preceduti da alcune affermazioni chiaramente contrarie alla loro percezione capitolavano e concordavano con gli altri. Da questo ed altri primi studi sono seguiti decenni di esperimenti sul conformismo di cui sono pieni i manuali di psicologia sociale.

Divertente e spunto di riflessione, per quanto non abbia certo gli standard di un’esperimento scientifico, è l’esperimento televisivo presentato da Jonah Berger della University of Pennsylvania per la trasmissione “Brain Games” della National Geograpic TV. Una paziente entra nella sala di attesa di un oculista, dove nove finti pazienti si alzano in piedi al suono di una campanella. Già alla terza ripetizione e senza avere alcuna idea del perché il soggetto si conforma, alzandosi in piedi, ogni volta, anche quando è arrivato il turno di tutti gli altri finti pazienti ed è rimasta sola. Perfino ognuno dei quattro soggetti entrati successivamente, senza alcun contatto con il gruppo originario dei finti pazienti, adottano a turno la stessa norma sociale. Per vedere la registrazione dell’esperimento televisivo è sufficiente digitare online “Conformity Waiting Room”.

Elaborare informazioni in modo approfondito ha un alto costo energetico, per questo talvolta imitare gli altri senza pensarci a fondo può risultare conveniente. Si tratta di una scorciatoia mentale del tipo che la psicologia chiama “euristica”. Secondo il modello di probabilità di elaborazione degli psicologi John Cacioppo e Richard Petty (1984) l’informazione ricevuta può essere elaborata tramite una via chiamata centrale, che approfondisce con cura tutti gli argomenti presentati; o tramite una via periferica che si ferma ad aspetti superficiali di semplice elaborazione (come la notorietà della fonte, la piacevolezza di una copertina o altri aspetti marginali al messaggio). Poiché la prima via richiede grande impegno la seconda sarà preferita dai cosiddetti individui definiti sempre da Cacioppo e Petty (1982) con basso bisogno di cognizione (Need for cognition), soprattutto quando in presenza di bassa motivazione.

La cornice dei nostri pensieri


Anche chi si sforza di pensare con la propria testa resistendo ad ogni influenza dell’opinione altrui e si impegna in un'elaborazione approfondita dell’informazione non è tuttavia totalmente immune dalla tendenza a confluire verso un’opinione comune. Questo perché ogni informazione assume il suo peculiare significato solo se inserita all’interno di quello che viene chiamato frame (cornice) che ne delimita l’ambito e i riferimenti. Occorre innanzitutto precisare che di teorie psicosociali che utilizzano il termine “frame” ne esistono (almeno) due: quella che è valsa il nobel per l’economia allo psicologo Daniel Kahneman e quella nata dagli studi del sociologo Erving Goffman.

La Teoria del Prospetto di Kahneman e Tversky (1979) si riferisce all’effetto (Framing Effect) che presentare la scelta tra due opzioni sottolineandone la possibilità di guadagno o focalizzandosi sulla prospettiva di perdita ha sulla scelta effettuata. La Teoria del Frame (o Frame Analysis), sviluppata a partire da un saggio di Goffman (1959), da successive sue opere e da altri autori, si riferisce ad uno schema di rappresentazione della realtà; ben definibile con le parole di Gitlin (1980): “Frames are principles of selection, emphasis, and presentation composed of little tacit theories about what exists, what happens, and what matters” (p. 6).

Potremmo sintetizzare affermando che inevitabilmente abbiamo degli schemi di riferimento, almeno in parte inconsapevoli, con cui attribuiamo un senso alla realtà; che una parte di essi è influenzabile dal modo in cui l’informazione viene presentata; e che pertanto siano (gli schemi) e siamo (noi tutti) manipolabili. Lascio alle parole del politologo Robert Entman (1993) evidenziare la portata di ciò sulla libera formazione di opinioni:
[Framing] seems to raise radical doubts about democracy itself. If by shaping frames elites can determine the major manifestations of “true” public opinion that are available to government (via polls or voting), what can true public opinion be? How can even sincere democratic representatives respond correctly to public opinion when empirical evidence of it appears to be so malleable, so vulnerable to framing effects? (p. 57)

I paradigmi di Kuhn


Potremmo considerare come analoghi ai frame in ambito scientifico i paradigmi, ovvero delle visioni globali del mondo e della sua struttura condivise dalla comunità scientifica di riferimento, di cui scrive Thomas Samuel Kuhn in The Structure of Scientific Revolutions (1962), pietra miliare della moderna epistemologia (da tale lavoro deriva la locuzione “cambio di paradigma” entrata nel linguaggio comune). Kuhn evidenzia che durante la fase che lui chiama di “normal science” lo scienziato incontra sia molti dati che si confanno al paradigma adottato  sia alcune “anomalies” che tenta di risolvere ed integrare nel paradigma. Si accumulano tuttavia anche alcune anomalie non spiegabili che lo scienziato “normale” tende ad ignorare. Per dare di conto delle anomalie tuttavia alcuni scienziati “rivoluzionari” sviluppano nuove teorie che la maggior parte dei colleghi rigetta come eretiche. Fintanto che la mole di anomalie non spiegabili dal paradigma adottato cresce al punto da non potere più essere ignorata e l’intera comunità è costretta ad una fase di “extraordinary science” che porta all’adozione di un nuovo paradigma, e con esso all’inizio di un nuovo ciclo.

Kuhn individua nella storia della scienza moltissimi esempi di evoluzione scientifica secondo lo schema esposto. Inoltre per Kuhn due distinti paradigmi sono incommensurabili, giacché si basano su linguaggi diversi, attribuiscono diversa interpretazione ai dati, si fondano su diversi criteri di successo; né sono sottoponibili a verifica al di fuori del paradigma stesso, poiché Kuhn ritiene semplicemente impossibile costruire un metodo comparativo neutro. Non sarebbe pertanto il paradigma più “vero”, più corrispondente alla “realtà”, o più “efficiente” ad imporsi; bensì quello che, sia su basi logiche, sia tramite aspetti sociologici, sia grazie all’entusiasmo e le aspettative che è in grado di generare, ottiene il consenso di un sufficiente numero di scienziati.

In parole più semplici, la supposta oggettività scientifica non è epistemologicamente sussistente: ogni scienziato tende inevitabilmente a confrontarsi con il paradigma dominante ed è spinto a conformarsi ad esso. Durante il Novecento la visione positivista tardo-ottocentesca è stata confutata su più fronti ed è difficile comprendere come oggi i legittimi dubbi di cui una vera scienza è sempre portatrice abbiano troppo spesso lasciato posto ad una fede scientista.

Conclusioni


Come succintamente esposto, a più livelli di analisi psicologica sono riscontrabili meccanismi suscettibili di favorire il conformismo nei confronti di idee dominanti. Non è intento di questo scritto soffermarsi su come tali dinamiche naturali possano essere sfruttate da chi ne abbia intenzioni e competenze. Mi limito ad osservare che le intenzioni, o comunque il desiderio, di manipolare le opinioni di una maggioranza di individui sono intrinseche al concetto stesso di potere, che su ciò si basa. La storia dovrebbe insegnarci oltre ogni ragionevole dubbio che chi il potere lo detiene, o chi lo ambisce, non ha mai esitato – né pertanto esiste motivo di supporre che esiterebbe – a fare di tutto per indirizzare il consenso verso i suoi obiettivi. Quanto alle competenze, molta acqua  sotto i ponti è scorsa dai tempi di Edward Bernays; “Psicologia della Persuasione” è da anni un esame comune tra i corsi di laurea in psicologia; e gli spin doctor sono da tempo figure professionali assai richieste.

Ne concludo che esiste una tendenza naturale a conformarsi verso l’opinione dominante, diffusa a livello di maggioranza della popolazione; che tale tendenza può essere artificialmente guidata; che ogni potere è intenzionato a tale manipolazione e che esistono professionisti a tal fine formati. Non sarebbe pertanto realistico aspettarsi che il conformismo non fosse ampiamente diffuso, né a livello sociale ritengo lecito immaginare che così non sia. Certamente nel tempo varia l’opinione cui esiste una tendenza a conformarsi – come nell’esempio iniziale del sostegno al Fascismo prima o dopo la sua caduta – ma ritengo che la tendenza alla conformità sia in sé inevitabile. Nondimeno a livello individuale il conformismo è tanto più forte quanto più è inconsapevole e decresce in proporzione allo sviluppo di un autonomo pensiero critico.

Pensare criticamente; concentrarsi sull'approfondimento dei contenuti di un messaggio in luogo che valutare il messaggio limitandosi alla supposta autorevolezza della fonte (errore logico conosciuto come fallacia ab auctoritate, o authority bias); costruirsi una visione di insieme; richiede molto tempo, impegno e fatica. Nondimeno ritengo che ne valga la pena e che oggi sia quantomai auspicabile.

Bibliografia

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