28 feb 2018

"Let the meaning choose the word": oltre ragione e sentimento





La citazione che dà il titolo a questo post è tratta da un breve testo di Orwell, scritto poco prima di esporre magistralmente nel suo capolavoro gli effetti di un linguaggio sempre più depauperato. La stretta interazione tra pensiero è linguaggio è infatti ben nota e il "non disporre delle parole per dirlo" rende più difficile non solo esprimerlo ma finanche pensarlo (coscientemente, meglio specificarlo). Tra le regole immaginate per generare la neolingua di 1984 figura l'associare ad ogni termine un significato univocamente definito, privo di sfumature, eliminando al contempo ogni possibile sinonimo, col dichiarato intento di impedire un pensiero divergente. Nel breve saggio da cui ho tratto la citazione si contesta invece alla politica l'uso di termini volutamente vaghi per manipolare l'elettore. Due strategie apparentemente opposte: l'assenza di sinonimi in un caso, il loro utilizzo forzato e improprio nell'altro. Ma l'effetto è simile sia che si tolgano i "mattoni" per pensare, sia che si renda difficile distinguere tra essi. Forse tuttavia è più semplice rendersi conto di non avere i termini per dirlo che realizzare di usarli in modo tanto confuso da renderli ben poco utili. Poiché i concetti sono certamente raggruppabili in sinonimi sulla base di un qualche elemento comune, purché si ricordi che non esistono sinonimi perfetti e che non sono pertanto liberamente sostituibili, a meno di perdere (confondere) il significato che li caratterizza. Cosa che purtroppo accade spesso.

Mi occupo e mi interesso di psicologia e credo che proprio in questo ambito si faccia la maggiore confusione tra termini e concetti solo apparentemente uguali. Riscontro spesso, perfino da parte di colleghi, l'uso disinvolto di termini come "ragione", "logica", "intelligenza", o di istinto, sentimento, emozione, come se si trattasse rispettivamente di sinonimi interscambiabili. Convengo che si possa trovarvi degli aspetti in comune; come pure che non sempre si dispone di una definizione universalmente accettata; ma da qui a dimenticare la regola elementare (nel senso che la si apprende - o almeno un tempo la si apprendeva- alle scuole elementari) che non esistono sinonimi perfetti, e che pertanto una qualche differenza dovrà pur esserci, ce ne passa. Dimenticare le differenze, fondendole in un insieme indistinto, genera appunto un pensiero confuso e di conseguenza ben poco utile.

"Ragione" deriva dal latino ratio, ovvero "calcolo", "rapporto". La Treccani ci ricorda che si deve a Cicerone il suo uso per tradurre il termine greco logos, probabile origine prima della confusione tra i due concetti. Giacché "logica", che deriva direttamente da logos, "parola", "pensiero", ha il significato originale di arte/scienza del pensiero, ovvero di studio di esso; ben altra cosa dal calcolare e del misurare insiti nel ragionamento. I termini sottendono sì la similitudine del calcolo matematico, ma è ben diverso l'uso che se ne fa, nel primo caso si assume un procedimento di calcolo dato e lo si usa in funzione di un'utilità, nel secondo caso lo si studia per determinarne la validità. Tant'è che è il ragioniere che cura la contabilità di un'azienda, non il logico. Inoltre il ragionamento "misura", ovvero confronta con un valore di riferimento, assunto come valido metro di confronto, è la logica che si interroga sulla sua effettiva validità.

Si tratta di due funzioni del pensiero con delle similitudini ma al contempo profondamente diverse. Confonderle lessicalmente ne impedisce anche un uso proprio. Nella vita la ragione consente di perseguire degli specifici obiettivi, sulla base dei valori tacitamente adottati. Nelle relazioni tuttavia, se tali obiettivi e tali valori sono egosintonici, ovvero coerenti con l'immagine di sé, diventano presupposti implicitamente "giusti", mentre "cattivi" diventano quelli di altri che eventualmente si contrappongono. La ragione conta e misura, non può né questionare i suoi valori, in quanto senza di essi non esiste più né conto né misura, né spesso ne è consapevole. Se i valori sono invece egodistonici, ovvero non sentiti come propri, si avrà un doloroso conflitto interiore, vissuto in modo più o meno consapevole, ma neppure in questo caso la ragione potrà questionare i propri valori poiché essa può solo contare e misurare. Come si sarà probabilmente già intuito la funzione che può sciogliere il conflitto non è il sentimento, che viene abitualmente contrapposto alla ragione. Prima di arrivarci parliamo però dell'altro gruppo di termini che troppo spesso vengono confusi insieme.

L'istinto - dal latino instinguĕre ossia "eccitare" - è la funzione più semplice da individuare poiché fortunatamente gode di una definizione scientifica pressoché universalmente accettata: è la tendenza innata e immutabile ad uno specifico comportamento. Occorrerebbe ricordarlo quando si suggerisce di "seguire l'istinto", tanto più che nell'uomo, psicologicamente parlando, non c'è molto di innato e immutabile.

Ben più complessa la definizione di emozione sulla quale gli studiosi si confrontano da anni. Etimologicamente la si associa, passando dal francese, al significato di ciò che muove, o che porta fuori (e-moveo). Probabilmente meno rigorosa, ma simbolicamente molto efficace, è una versione psicosomatica che vede l'origine del lemma da emo agere, ovvero muovere il sangue, visto che certamente l'emozione smuove il sangue ed è questa aspetto a caratterizzarla come stato d'animo intenso e di breve durata.

La psicologia, come disciplina che ambisce alla precisione della scienza, abbisogna di riferimenti chiaramente definiti e si è pertanto sforzata di superare le ambiguità del linguaggio comune sui termini emozioni, sentimenti e passioni; attribuendo alle prime forte intensità e breve durata; ai sentimenti intensità minore ma durata maggiore; alle passioni forte intensità e ampia durata. Tale distinzione - pur non questionando alla Poesia la licenza di scegliere l'assonanza migliore - si rivela scientificamente molto utile, ma che dire del linguaggio comune? La pressoché indistinta sinonimia con cui i termini vengono usati trova purtroppo giustificazione nell'etimologia. "Sentimento" infatti deriva da sentire per mezzo dei sensi fisici, gli stessi che confluiscono nella "sensazione", termine quest'ultimo usato propriamente dalla psicologia (ovvero col significato di ricezione degli stimoli sensoriali, diversamente dalla percezione che è invece il risultato dell'elaborazione neurale degli stimoli); ma ancora una volta il linguaggio comune usa spesso i termini indistintamente, non senza validi motivi visto l'etimo. Analogamente la derivazione etimologica di "passione" da pati, "soffrire", non ci aiuta nel ricavarne la moderna definizione psicologica, anche se forse può ricordarci il prezzo talvolta richiesto al perseguire le proprie passioni. Insomma, negli "affari di cuore" l'etimologia non ci aiuta poi molto, probabilmente perché in tale ambito la confusione deve avere radici molto antiche.

Dimenticavo: "intelligenza", da inter legere, ovvero "in grado di scegliere tra". Ma come si diventa "intelligenti", ovvero artefici di buone scelte? Fintanto che la si riteneva per lo più legata alla capacità di ragionamento poteva avere senso utilizzarla come sostanziale sinonimo di "ragione", ma oggi che passando dal riconoscere valore ad un'intelligenza emotiva abbiamo infine accettato l'esistenza di intelligenze multiple, come mettiamo in atto un comportamento Intelligente, con la "i" maiuscola? Se esistono intelligenze multiple è probabilmente dal contemporaneo utilizzo delle funzioni soggiacenti che deriva un comportamento veramente intelligente.

Diciamo, andando oltre "ragione" o "sentimento". Entrambe funzioni necessarie, entrambe intrinsecamente insufficienti. Occorre comprenderle entrambe, nel senso di prenderle (e usarle) entrambe, ovvero cum prendere; ma occorre innanzitutto comprendere la necessità di andare oltre, nel senso di diventarne consapevoli, cioè  non solo "sapere" ma sapere "con". Ma, nuovamente, se saperlo è facile, e basta in fondo averlo letto e trovarlo sensato, come invece diventarne con-sapevoli? Sostanziale differenza è l'averne fatto esperienza che a quel punto portiamo "con" (in) noi. Fare esperienza - ovvero "esperire", experior, e da lì "sperimentare" - e prima condizione indispensabile né è l'attenta osservazione, ovvero lo "sguardo intenso e prolungato", sguardo prevalentemente interno in questo caso, e sapientemente determinato a vedere ciò che c'è, non ciò che pregiudizievolmente crediamo ci sia. Così, osservando attentamente potremmo forse intuire, da in tueri, vedere dentro.

Ma per vedere davvero dentro bisogna guardare attraverso un vetro pulito. Se sul "vetro" proiettiamo i nostri pregiudizi, inevitabilmente quanto osserviamo ne assumerà le caratteristiche (ne sarà sporcato). Proiettare, psicologicamente parlando, è l'atto di attribuire a persone o cose aspetti o sentimenti propri, o di parti di sé. Qui uso il termine nella sua accezione cinematografica ma a ben vedere se, nel tentativo di osservarsi, ci scindiamo in osservatore e oggetto di osservazione, l'attribuzione al proprio sé osservato di caratteristiche del proprio sé osservatore non è infondo analoga introiezione del suddetto meccanismo. Sia come sia, una buona osservazione deve essere lucida, questo è certo, e qualcosa dovrebbe aiutare a renderla tale.

A tal fine, ed aderendo alle descrizione fattene, non potrà certo aiutarci la ragione, che calcola sulla base di unità di misura già date; né potrà farlo il sentimento, in quanto espressione soggettiva del proprio stato d'animo e pertanto lungi dal poter essere oggettivo. Dalla distinzione già fatta tra ragione e logica, e per i motivi suddetti, si evince tuttavia la potenziale utilità di quest'ultima nel "pulire il vetro". Sia chiaro, non serve a guardare dentro, quello lo fa l'intuizione, ma la logica può palesare la sterilità di tutti i nostri ragionamenti, similmente a come la logica matematica di Gödel dimostrò l'incompletezza di qualsiasi insieme di assiomi logici; non necessariamente utilizzando le stesse modalità ma basandosi su un'analoga spietata sincerità.

L'altra funzione che può spalancare le porte della visione è un sentimento del tutto particolare, che trascenda la soggettività dei comuni sentimenti: l'amore. Ma da subito urge una precisazione, di quale amore parliamo? Nella nostra lingua troppi significati confluiscono nel lemma e con troppa confusione viene difatti utilizzato. Gli antichi greci, come è noto, disponevano di termini diversi, con significati distinti che oggi confluiscono purtroppo tutti nello stesso termine. C'era Eros, Philia, Storge, Xenia e Agape. Tra questi solo Agape, in quanto amore totale, incondizionato e disinteressato, può trascendere la soggettività e pertanto permetterci di osservare lucidamente. A condizione di non confonderla con i suoi "fratelli minori", incapaci di tanto. E qui il problema si fa ricorsivo: come può il sentimento riconoscere in sé la potenzialità di agape se la nostra lingua comune non dispone neppure della parola per distinguerla da sentimenti affini ma ben diversi? Giacché nelle comuni relazioni parliamo tanto spesso di amore, ma assai raramente si tratta di agape.

Sia come sia, a conclusione di questo excursus linguistico, con le peculiarità che a questi termini sono state riconosciute, ecco cosa può andare oltre ragione e sentimento: Logos e Agape.

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