8 nov 2013

Lo sfruttamento degli animali nella nostra società


Ogni società di cui abbiamo notizia storica ha sempre sfruttato altre specie animali, per il suo sostentamento alimentare, per i trasporti, per riscaldarsi, per rituali, per divertimento, o per tutte queste cose. Molte altre specie animali inoltre parassitizzano, o si nutrono di, altre specie. Sfatiamo pure, visto che ci siamo, anche il mito che gli animali non uccidono mai per divertimento: è falso, e centinaia di studi etologici lo documentano ampiamente. Lo sfruttamento da parte del più forte, conspecifico o meno che sia, è la norma in natura, non l'eccezione. A meno di credere che la natura sia quella descritta da Walt Disney...

Altro mito da sfatare prima di entrare nell'argomento è quello che vede la nostra specie dotata di un completo libero arbitrio, che in virtù delle nostre facoltà razionali ci porrebbe su un piano completamente indipendente dalle altre specie animali. Certo, disponiamo anche di capacità associative peculiari, che ci consentono sia di sviluppare tecnologie con le quali dominare le altre specie, sia di riflettere sul loro utilizzo. Tuttavia la parala chiave in tutto ciò è "anche". Dobbiamo fare i conti col nostro genoma, che ha filogeneticamente conservato molto di quanto abbiamo in comune con gli altri mammiferi, nei quali si manifesta - ad esempio - in fenotipi che vedono un canide azzannare e uccidere una preda non per lui commestibile (ma utile per imparare a cacciare e per lui attività palesemente piacevole). Le nostre pulsioni sono figlie del nostro percorso evolutivo, i cui effetti oggi sono tutt'altro che estinti. Tanto più ci riteniamo liberi da essi, tanto più ne siamo schiavi.

Ciò premesso - per evitare di cadere in idealismi da favola, validi unicamente in quel contesto - resta il fatto che la nostra attuale società presenta delle sue peculiarità nel suo rapporto con gli animali. Non li utilizziamo (quasi) più per dei rituali ma, per la prima volta nella storia (quantomeno in quella conosciuta) li impieghiamo su larga scala nella nostra ricerca scientifica, medica, cosmetica e farmaceutica. Li alleviamo per l'alimentazione ed il pellame con metodi industriali. Li utilizziamo come animali da compagnia in appartamento, incrociandoli per selezionare tratti estetici.

Da quest'ultimo punto vorrei partire in questa analisi, giacché troppo spesso sfugge ai sedicenti "amanti degli animali".

Animali da compagnia

Troviamo millenaria testimonianza della presenza di cani e gatti come animali da compagnia nelle nostre società. Ipotizziamo, molto plausibilmente, che ciò abbia avuto origine in un percorso simbiotico che per lungo tempo ha offerto all'uomo gli utili servizi di canidi (nella caccia) e felini (per scacciare i roditori dai fienili) e a quest'ultimi cibo e rifugio. Questo "patto" avrebbe, nel tempo, selezionato alcuni tratti fino a portare le attuali specie (il cane, ad esempio) a differire dal loro progenitore (il lupo, nell'esempio). Successivamente, anche in assenza della funzione originaria, l'uomo avrebbe trovato piacevole la compagnia di questi animali e, fino all'età moderna, questa situazione è rimasta più o meno stabile.

Due grossi cambiamenti, di cui raramente viene preso atto, sono tuttavia intercorsi nella nostra attuale società. Questi animali sono stati sistematicamente selezionati per ricavarne razze dagli accentuati tratti estetici; e hanno accompagnato l'uomo dal suo ambiente rurale a quello delle attuali metropoli.

La selezione artificiale non è un invenzione recente, no, ogni volta che l'uomo ha allevato degli animali ha promosso gli incroci tra i soggetti portatori dei tratti desiderati. Finché tuttavia a guidare questo fenomeno è stata la ricerca della robustezza della costituzione, o la docilità del carattere, gli effetti sulla specie selezionata possono essere considerati favorevoli, o quantomeno non gravi. Cosa accade però selezionando l'esasperazione di un tratto estetico? La risposta è semplice: gli effetti collaterali di tale selezione - pagati dalla specie che ipocritamente sosteniamo di amare (...), e motivata esclusivamente dalla nostra vanità - consistono nella maggiore probabilità di produrre individui malati, cagionevoli o psicologicamente instabili. Le conoscenze di base per comprendere perché ciò accade (ed è ampiamente documentato che accade!) sarebbero alla portata di chiunque abbia seguito le ore di biologia alle elementari, ma chi non dovesse comunque capirlo può chiedere conferma ad un qualsiasi genetista, oppure ricercare sul libro delle elementari...

Un secondo cambiamento, ancor più sottovalutato, è legato ai luoghi e alle modalità di compagnia che imponiamo ai nostri "amici". Noi sempre più spesso viviamo in appartamenti, chiusi e privi di spazi esterni: condizioni che imponiamo anche ai nostri animali domestici. Si tratta di un aspetto probabilmente inevitabile, per carità. Quanto riflettiamo però che cani e gatti sono specie sociali e cacciatrici? Che soffrono in un ambiente ristretto e senza la possibilità di uscire? Non è forse meglio, come una madre iperprotettiva (che causa nelle povere vittime in questione traumi analoghi...), affermare che relegarli in appartamento sia utile a proteggerli? Tanto più che non essendo né cani né gatti capaci di utilizzare il nostro linguaggio, possiamo interpretare a nostro piacimento le loro reazioni. Poiché tuttavia per loro non c'è scelta, "se ne fanno una ragione", eccetto i soggetti più vulnerabili, sviluppano capacità adattive a questa condizione, trasformandosi, sia come specie, che come individui,  in "giocattoli" ubbidienti per i propri padroni. Questo si chiama amore o si chiama egoismo?

Cavie da laboratorio

Quanti conoscono la storia di un prodotto farmaceutico ed hanno una vaga idea delle vite animali che è costata la sua realizzazione? Chiaro, sì, "dovremmo forse rinunciare a curarci?", ma non era questa la domanda. La domanda è: come nasce un farmaco?

Per curare farmacologicamente una patologia è innanzitutto necessario comprenderne i fattori biologici sottostanti, individuare delle molecole capaci di interagire con essi, testarne l'effettiva efficacia e la presenza di effetti collaterali. La maggior parte degli studi necessari per ognuno di questi passaggi è effettuata su animali da laboratorio.

Scendendo nel dettaglio, per indagare ad esempio sui fattori sottostanti la sindrome dell'X-fragile, si è dovuto ricercare post-mortem delle mutazioni nel genoma dei soggetti umani che ne sono affetti; poi, una volta individuato come fattore ricorrente la mutazione della metilazione di un gene, lo si è trapiantato geneticamente nel genotipo di centinaia di topi, per osservare se questa alterazione produce un ritardo mentale, simile a quello di cui soffrono i soggetti umani affetti da suddetta sindrome. Questo passaggio deve chiaramente essere ripetuto ad ogni fallimento o ad ogni ipotesi di concausa che voglia essere testata. Una volta individuato un fattore responsabile occorre testare, sui vari gruppi di cavie cui è stato fatto un analogo trattamento, ed altrettante di controllo, le molecole che potrebbero fungere da antagonista al fattore biologico, poi testare gli effetti collaterali di quelle che sembrano funzionare, prima di passare infine alla sperimentazione sull'uomo.

Un rapido calcolo mentale degli animali sacrificati dalla ricerca, che tentasse di sommare le cavie necessarie per ogni singolo esperimento, per ogni singolo farmaco, per ogni singola patologia, porterebbe rapidamente a perdere il conto...

Io, lo scrivo subito, non sono genitore di un figlio affetto da sindrome di X-fragile né, per mia fortuna, lo sono di figli affetti da qualsivoglia patologia, né io stesso ne sono portatore. Può certamente darsi che questo fattore incida sulla mia reazione emotiva quando mi viene detto che questa ricerca "non può certo essere fatta su soggetti umani". Concordo naturalmente con il contenuto esplicito dell'affermazione, ma molto meno tuttavia con quello implicito che sembra essere avallato dalla - anch'essa implicita - assunzione che la sofferenza degli animali, in quanto esseri inferiori, sia meno importante.

Beh, certo, ci sono i protocolli deontologici che garantiscono che le cavie non vengano maltrattate e non subiscano sofferenze eccessive. Solo, mi domando, costringere un essere vivente, attraverso la manipolazione del suo codice genetico - per tornare all'esempio dell'X-fragile - ad un'esistenza afflitta da ritardo mentale, in quale francesismo non suona come sinonimo di maltrattamento?

Ancora più interessante tuttavia è lo studio, in modelli animali, di disturbi dell'umore, come la depressione. Poiché essa non dipende da fattori biologici univoci, bensì da una complessa interazione tra predisposizioni genetiche e influenze ambientali, il suo studio ricorre (anche) a manipolazioni dell'ambiente di allevamento. Uno dei protocolli utilizzati per indurre comportamenti di evitamento sociale e di anedonia (due tratti presenti nella depressione) si chiama Cronic Social Defeat e consiste nel sottoporre dei topi a ripetute esposizioni con consimili dominanti e aggressivi, dalle quali non possono sottrarsi. le cavie non subiscono danni fisici perché protetti da una barriera che impedisce il contatto ma lascia passare lo stimolo ottico, acustico e olfattivo. Al termine di questo ciclo di esposizioni le cavie provano quello che è stato chiamato "senso di cronica sconfitta sociale" e che si manifesta con un comportamento che appare simile al comportamento dei soggetti umani depressi.

La storia ci insegna che i conquistatori spagnoli sono stati capaci delle loro barbarie nei confronti delle popolazioni native perché quest'ultime erano da loro viste come "non veramente umane". I pagani, innanzitutto non erano cristiani e, questa ed altre differenze, faceva di loro dei sub-uomini. Questo fattore inibiva la compassione e consentiva le atrocità.
Molte differenze tra noi ed altre specie animali sono di per sé palesi. Una tuttavia, quella che vede gli animali diversi nella capacità di provare emozioni e sofferenze, mostra un'interessante contraddizione. Se i topi non provano sofferenza simile a quella che proverebbe un essere umano in analoghe condizioni di laboratorio, come è possibile sfruttarli per studiare una patologia dell'umore?

Alla domanda se un metodo scientifico possa evitare il ricorso a cavie di laboratorio la risposta  è tuttavia "no", non il nostro paradigma scientifico. I cosiddetti metodi alternativi sono di fatto metodi complementari, non sostitutivi. il metodo scientifico si basa su esperimenti e gli esperimenti medico-scientifici necessitano di essere effettuati su esseri viventi, animali o umani che siano. Altre tradizioni mediche si sono basate e si basano su altri metodi, ma la nostra medicina scientifica, per sua stessa natura, non può farlo.

Cibo nelle nostre tavole

Giusto o sbagliato che sia l'uomo ha sempre mangiato carne. Ci sono state, sì, come ci sono tutt'oggi, percentuali di persone che, per motivi religiosi, etici o di salute, hanno scelto di non farlo, ma ciò non avalla alcuni tentativi - in vero piuttosto ridicoli - di dimostrare che la specie umana non sia, per natura, onnivora. La nostra società ha però profondamente modificato sia i metodi di allevamento tradizionali che, conseguentemente, la frequenza nel consumo di carne.

Prima dell'introduzione della pastorizia l'uomo cacciava altri animali. Le presenza di carne nella dieta era limitata dagli sporadici successi di caccia e l'animale, sia pure ucciso, aveva trascorso un'esistenza nelle condizioni naturali. Con l'introduzione della pastorizia, si ha accesso ad alimenti di derivazione animale e, man mano che le popolazioni diventano più stanziali si sviluppano allevamenti da macello. Questo secondo aspetto ha rappresentato un primo rilevante cambiamento nelle condizioni di vita (prima ancora che in quelle di morte...) dell'animale. Per lunghi secoli tuttavia queste condizioni, sia pure non naturali, si sono mantenute a contatto con un ambiente relativamente simile a quello naturale.

Oggi a caccia non si va per necessità bensì per divertimento. E ai soggetti che si divertono nell'uccidere un altro essere vivente - per quanto sia consapevole che si tratti di un divertimento derivante dalla soddisfazione delle pulsioni evoluzionistiche di cui ho fatto cenno nelle premesse - non può che andare tutto il mio disprezzo!

Ad acquistare la carne si va invece al supermercato, dove a prezzi inferiori a quelli pagati per oggetti fatti di plastica o vetro compriamo cadaveri di animali, o parti di essi, allevati con gli stessi principi di ottimizzazione della catena produttiva con cui sono realizzati gli oggetti fatti di plastica o di vetro.

Mangiamo, come hanno fatto i nostri avi e gli avi dei nostri avi, carne di animali morti, sì, che tuttavia hanno vissuto delle vite completamente diverse. In alcuni casi si possono ancora chiamare "vite"?

Conclusioni

La nostra società non ha inventato lo sfruttamento degli animali, né di fatto è stata la nostra specie a farlo. L'ho già scritto, ma lo ripeto, in natura il più forte sfrutta il più debole, e fino a non molto tempo fa, tenendo conto di questo aspetto, il comportamento umano nei confronti degli animali era naturale. Nella nostra società contemporanea molte cose sono tuttavia cambiate, è aumentata l'intensità di questo sfruttamento, le finalità per cui avviene, e le modalità con cui avviene.

In certo qual modo mi sembra di poter scrivere che - a dispetto del suo sparlarne, o forse proprio per quello - sia venuto meno il rispetto per la vita. Una vita animale non è che un numero se utilizzata per nutrirci, per sviluppare dei farmaci o testare delle teorie; salvo poi sentirsi "amanti degli animali" alle mostre canine o feline dove sono esposte le vittime della nostra insulsa vanità; o quando si proietta su un animale domestico la soddisfazione dei nostri bisogni, che sono lungi dall'essere anche i suoi.

Quello che probabilmente si può identificare in culture tradizionali di cui ci è rimasta traccia non è tanto, o quantomeno non solo, una carenza tecnologica, quanto una presenza etica. Una gratitudine nei confronti dell'animale che è servito a sostentarci, di cui forse rimane labile traccia - deturpata, come ogni aspetto delle religioni contemporanee - nel rito di ringraziare prima dei pasti. Forse ringraziare non un generico dio, quanto un concreto essere vivente.






Nessun commento:

Posta un commento