3 mar 2017

l'elaborazione della realtà relazionale



Quanti conflitti, quanta sofferenza, in nome della difesa della realtà dei fatti; quante litigate tra visioni del mondo contrapposte ognuna convinta di essere paladina contro le altrui fantasticherie. Ma cos'è la realtà?

Una nota enciclopedia online definisce "realtà" come "ciò che esiste a tutti gli effetti, di solito in contrasto a ciò che è illusorio, immaginario o fittizio". Tale contrapposizione tuttavia, sebbene abitualmente assunta come ovvia, comporta notevoli problematiche largamente indagate dalle filosofie di tutti i tempi. Distinguere tra reale e illusorio richiede la percezione degli eventi, l'elaborazione dei dati percepiti e la valutazione degli stessi: tutti passaggi che meritano di essere approfonditi.

La percezione consiste in stimoli ricevuti dai nostri organi sensori. Sulla natura di tali stimoli iniziano i primi doverosi dubbi che hanno storicamente trovato le più varie risposte, dal ritenerli autogenerati, indipendenti da un mondo esterno del quale si dubita dell'esistenza, al considerarli specchio fedele della realtà (posizione chiamata in filosofia "realismo ingenuo"). Più comunemente si accetta l'esistenza di un mondo esterno, origine dei segnali percepiti, i quali sono filtrati dalle caratteristiche intrinseche degli organi sensori, di modo che quanto ricevuto, ovvero ciò che ci appare (il fenomeno), si basa su una realtà (noumeno) che tuttavia non è direttamente percepibile. Ciò comporta l'impossibilità di confrontare il segnale ricevuto con l'emittente, ovvero non c'è modo di valutare la qualità della trasmissione dei dati.

Abitualmente, arbitrariamente, e per lo più inconsapevolmente, assumiamo che siano reali le percezioni che si conformano a quelle riferite dalla maggioranza degli altri esseri umani. Atteggiamento di nessun valore epistemologico ma che, va riconosciuto, ha certamente utilità pragmatica visto che, reale o meno che sia in ultima analisi, l'insieme delle percezioni comuni costituisce lo spazio che condividiamo socialmente, ed in tali termini è certamente una realtà. Così definita la realtà diventa quindi una sorta di media statistica delle percezioni umane. Poiché come membri della stessa specie abbiamo organi sensoriali dello stesso tipo, a molti livelli percepiamo gli stessi fenomeni; poiché tuttavia non siamo identici, ci saranno casi in cui percepiamo diversamente. Le effettive percezioni di ognuno potranno quindi essere conformi alla norma, e per lo più lo sono; differirne ma essere ricondotte al sentire comune per innati meccanismi di conformismo; o essere diverse e rimanere tali, ed in tal caso possiamo essere consapevoli dalla differenza con l'altrui percezione o non esserlo, dando erroneamente per scontato che sia l'unica percezione possibile.

In ogni istante i nostri organi di senso percepiscono migliaia di informazioni di cui però solo una piccola quantità viene elaborata, se così non fosse ne saremmo semplicemente soverchiati. La selezione degli stimoli è in parte inconscia, guidata da meccanismi autonomi legati a funzioni vitali o all'abitudine, in parte mediata da attenzione consapevole. In generale si può affermare che ad essere elaborate saranno le percezioni ritenute, a torto o a ragione, salienti, importanti. Pertanto, se è lecito presumere che tutte le persone in una stanza daranno importanza all'improvvisa apparizione di un leone e la elaboreranno in modo simile, è altrettanto lecito supporre che solo alcune porranno attenzione ad una specifica affermazione e probabilmente la elaboreranno in modo diverso. Il dato grezzo (la percezione della frase in questo esempio) assume infatti importanza unicamente se elaborato, ovvero associato ad altre informazioni. La vista di un leone è di per sé neutra, è l'informazione della sua pericolosità, unita al desiderio di preservare la propria sopravvivenza, che le dà uno specifico significato in uno specifico contesto. Nuovamente, alcuni stimoli saranno dai più elaborati in modo simile se si trovano nella stessa situazione, dispongono di informazioni e interessi simili; ma altri stimoli assumeranno salienza unicamente per alcune persone o, anche avendo per entrambi importanza, saranno elaborati diversamente al variare di qualsiasi altro fattore.

Così, partendo da un mondo assunto come reale, che non possiamo sapere quanto accuratamente percepiamo, né in caso di diversità di percezione quale vada considerata più valida (possiamo al più sapere quale sia più comune...); ne selezioniamo alcuni aspetti, tralasciandone altri; e li elaboriamo interpretandoli sulla base di altre informazioni in nostro possesso, di interessi o tendenze più o meno consapevoli, in modi più o meno simili; generando narrazioni interiori talvolta sovrapponibili, talaltra profondamente discordanti con quelle altrui. In tutti i casi tali narrazioni costituiscono la nostra "realtà". Ma sono la realtà? Cioè, in cosa si può dire lo siano di più delle immaginazioni o delle illusioni alle quali per definizione la realtà dovrebbe contrapporsi? Per molte tradizioni non sono distinguibili perché non sono diverse ed i nostro cosiddetto stato di veglia è considerato unicamente un sogno ad occhi aperti. Sia o meno ciò vero, e sia o meno da tale stato possibile "svegliarsi", sulla base delle premesse e fermo restano che ogni narrazione interiore è pur sempre reale in quanto tale ma volendo ricercarne un carattere di oggettività universale, come distinguerle dall'immaginazione (anch'essa reale in quanto tale)?

Per valutare qualcosa occorre una norma, nella sua originale accezione di "misura" (dal latino: "squadra") di riferimento. Per alcune persone la norma adottata è un qualche dogma, una rilevazione supposta divina detenuta da una qualche religione, assunta per distinguere il giusto dallo sbagliato, il reale dall'immaginario. Poiché tuttavia esistono "verità" diverse, tra loro contrapposte, e la storia dovrebbe averci insegnato tanto l'arbitrarietà quanto la pericolosità di tale strumento di misura io dubito fortemente della sua validità. Per la visione scientifica moderna la norma consiste nella media statistica del verificarsi di eventi e, per la visione psicologica conseguente - visto che ci occupiamo di narrazione interiore e immaginazione - la visione più diffusa è considerata essere la norma. Abbiamo però già visto che diffuso significa "reale" dalla prospettiva sociale non da quella ontologica; inoltre un'immaginazione collettiva non avrebbe da tale prospettiva alcun modo di essere distinta dalla realtà. Alcuni ritengono infine che la realtà possa essere colta direttamente attraverso uno stato generalmente chiamato "illuminazione". Tale visione, per sua natura, poiché presuppone l'apertura di sensi sovraordinari, non può essere a questo livello né confutata né avallata. Posso tuttavia affermare di non essere io illuminato, come posso affermare di non conoscere persone che lo siano, o quantomeno che appaiano dotate di speciali qualità che le rendono superiori ai comuni problemi umani. Pertanto, possibile o meno che sia, e per quanto "illuminanti" siano le letture di grandi uomini che alcune tradizioni ritengono abbiano raggiunto tale stato, non è qui utilizzabile come misura.

In definitiva non sembra esserci una misura epistemologicamente valida per distinguere la realtà dall'immaginazione. Poiché però, a meno di lasciare alla totale arbitrarietà, un qualche strumento appare comunque necessario, potrebbe essere indicata una prospettiva pragmatica. Relativamente alle percezioni si è notato che adottiamo l'insieme delle percezioni comuni che, anche se ontologicamente incerte, costituiscono così la "realtà" sociale; si tratta di una finzione (consapevolmente adottata o inconsciamente subita) necessaria per ogni scambio relazionale ed in fondo una percezione è di per sé neutra finché non viene interpretata. Altrettanto non si può però dire delle elaborazioni, personali o sociali che siano; adottare come narrazioni di riferimento le più comuni, ad esempio in una società di cannibali o in presenza di qualsiasi comportamento aberrante, porterebbe a conseguenze indesiderate a maggior ragione se non percepito come tale dai più. Inoltre per quanto le percezioni talvolta differiscano, le narrazione troppo spesso sono in aperta belligeranza. Meglio pertanto rigettare ciò che è comune, preferendoli ciò che è utile, che funziona. Certo, analiticamente si aprirebbe un'ulteriore analisi su cosa si intenda con "funziona", e epistemologicamente sarebbe un'analisi necessaria oltre che probabilmente portare ad altre ed altre considerazioni. Ma pragmaticamente possiamo fermarci qui, per sapendo che anche in questo caso è una finzione, e guardare con questo filtro, per rozzo che sia.

Dunque, la realtà relazionale: i disguidi, i dissapori, le interminabili discussioni, le aperte litigate, i veri e propri conflitti, tra persone nemiche ma anche e forse più tra persone che si vogliono bene, tra parenti, tra amici, nella vita di coppia. Due o più narrazioni contrapposte riferite agli stessi eventi, che pretendano di essere reali e accusano l'altra di fantasticheria. Quale è la realtà? Guardando con sufficiente distacco altre persone che litigano, la persona con cui stiamo litigando e (quando ci riusciamo...) noi stessi, la realtà è che in un litigio ognuno si comporta in modo diverso dal suo solito. Come si suol dire "ha perso le staffe" e i suoi "cavalli" sgroppano senza controllo alcuno. Così i richiami alla calma fanno solitamente arrabbiare di più; le spiegazioni alle lamentele o alle accuse vengono a priori rigettate senza neppure essere ascoltate; degli eventi vengono sottolineati gli aspetti atti a fomentare il fuoco e rigettata ogni evidenza del contrario; sono  modificate le consuete capacità mnestiche, di analisi, di comprensione, di ascolto. Finché un giorno, presto o tardi che sia, il fuoco si esaurisce e quando si è acceso tra persone che si vogliono bene il fumo, diradandosi, lascia nuovamente spazio a abbracci e sorrisi. Spesso senza che sia mutato alcunché dei motivi ritenuti responsabili di tanta sofferenza. Tutto ciò per difendere la superiorità della propria visione della realtà, cosa di fatto indimostrabile poiché la propria narrazione si basa su presupposti personali e non condivisi da colui o colei cui stiamo urlando contro, ed unicamente in essi trova la sua realtà.

Solo un'ipotesi, lasciata a mezz'aria, con un punto di domanda: ma se i motivi scatenanti di tutto ciò fossero in realtà solo dei pretesti? Se a generare tanta acredine fosse una sorta di virus mentale e le cattiverie capaci di uscire in tali momenti fossero l'analogo del pus, un vomito mentale che l'attuale condizione infetta ci obbliga ad espellere? Se, come il virus del raffreddore anche il virus della rabbia fosse contagioso, ma non sempre e non per tutti, se dopo averci sfinito si risolvesse naturalmente, ma a rischio di riacuirsi se ancora in convalescenza, o di nuovo contagio per soggetti troppo cagionevoli? Ciò non spiegherebbe forse meglio il perdere le staffe di quanto lo faccia il pretendere che avvenga in difesa di una realtà che in quei momenti assume l'irremovibilità di fronte a qualsiasi prova contraria, più tipica di un deliro che di un'arringa; che è spesso sproporzionata e soprattutto così poco funzionale ad ottenere alcunché?





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