Difficile contraddire che se uno trascorre le giornate a litigare col partner difficilmente è padrone di sé. Ed ancor meno lo è se di questi litigi gli attribuisce ogni responsabilità.
Per quanto tali "cecità" rischino di pararsi dietro giustificazioni apparentemente nobili - e proprio per questo più infide - anche tra chi osserva la vita con occhi meno superficiali del consueto; quantomeno dell'esterno sono palesi.
Meno palesi sono situazioni più altalenanti, in cui "l'errore" si nasconde meglio...
Presupponendo di non cercare in un rapporto quello che Fromm chiamava "egoismo a due" e di non chiamare "amore" le proprie debolezze (gelosie, bisogni..) o la propria eccitazione, quale che ne sia l'origine, ed intraprendendo col necessario coraggio una analisi più sincera, rimane, almeno in me, la domanda sull'adeguatezza del partner - lui per noi e noi per lui.
Assumendo che chi legge ritenga che comunemente, come esseri umani, "dormiamo in piedi" emerge subito una importante distinzione tra coloro che desiderano continuare a dormire il più comodamente possibile e coloro che tentano di "svegliarsi". Questa distinzione (se fosse netta, ma emerge mentre scrivo il sospetto che non lo sia...) produrrebbe due obbiettivi antitetici.
Nel caso in cui uno dei due desideri "lavorare su di sé" e l'altro no si produrrebbe o indifferenza l'uno per l'altro o "attrito" tra i due opposti propositi. Se entrambi desiderassimo dormire sogneremmo insieme momenti più o meno belli. Cercando entrambi di svegliarsi vivremmo insieme dei momenti molto intensi.
Questa analisi farebbe desiderare seconda o la terza ipotesi. La terza da porre come aut-aut al partner (o alla ricerca di esso) per chi voglia Lavorare.
Uso il condizionale per due motivi:
- Il già citato dubbio che la distinzione non sia netta ma che, più plausibilmente, entrambi desiderino in parte dormire ed in parte svegliarsi, confrontandosi ognuno con le proprie difficoltà nello specchio che il compagno gli fornisce.
- la parola "attrito". Deprechiamo la prima ipotesi poiché è quella che genera con l'attrito la sofferenza, ma non è esso, per quanto conosciamo, condizione indispensabile per evolvere?
Ecco quindi nascere il sospetto che la, per me, tanto frequente domanda sull'adeguatezza sia essa ad essere principalmente inadeguata...
Mi viene in mente anche un noto modo di dire indiano riguardo ai matrimoni (ma non presuppone la necessità del rito per essere applicabile..): Voi in Occidente sposate chi amate, noi in Oriente amiamo chi sposiamo.
Suggerisce la necessità di considerare il rapporto di coppia come un campo da coltivare affinché dia buoni frutti, in luogo di un campo da cui limitarsi a cogliere fino all'inevitabile esaurimento.
Questo lo sa da tempo chiunque si sia posto qualche seria domanda: i frutti del raccolto dipendono principalmente dalla coltivazione.
Il problema parrebbe quindi risolto se non intervenisse la domanda di cui parlavo, "sarà il terreno adatto per la coltivazione che cerco?". Sembra perfettamente razionale presupporre di non sprecare preziose energie su un terreno inadatto (alla semenza in questione, non certo inadatto o "sbagliato" in senso assoluto) ma, forse, non è altro che l'ennesimo autoinganno col quale giustifichiamo la propria pigrizia...
Dico forse.. Ma se l'attrito ci è indispensabile a crescere e se la realtà che sperimentiamo non è altro che quella che noi stessi ci creiamo come necessaria, la domanda ha ancora senso?
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