2 nov 2009

Lo zen e l'arte della gestione di una crisi

Parafraso nel titolo R. M. Pirsig, ed a "Lila", la sua seconda opera, mi ispiro in alcuni punti. Parlo di crisi in senso ampio - non economico... - di momento "delicato" nel quale lo scorrere automatico degli eventi viene interrotto. E concordo con Huxley che anche tale momento dipenda essenzialmente da come lo viviamo.

Grammaticalmente nel dire "ciò che ci accade" indichiamo come soggetto, gli eventi, non noi stessi, i quali appunto "accadono". Così è. Il susseguirsi di eventi che chiamiamo vita è in gran parte automatico. Talvolta tuttavia questo "fluire automatico" si interrompe, rallenta o devia ed un senso di irrequietezza ci assale. Una scossa nel grande sonno che chiamiamo vita.

Finché riteniamo che il nostro scopo sia "dormire" comodi, tali scosse sono indubbiamente indesiderabili. Tuttavia avvengono ed avverranno sempre.
Perché ciò? sono errori di programmazione? O più verosimilmente l'errore risiede nell'interpretazione comunemente data a tali scosse?

Ogni situazione è valutabile solo in funzione di uno scopo. Da bambini tutti domandiamo "perché?", poi molti desistono. Senza un perché tuttavia niente ha senso, e la domanda ultima resta sempre "qual'è il mio scopo?". "Comodità" è la risposta comune, che logicamente vede con orrore ogni cambiamento imposto da una crisi. "Acquisizione di consapevolezza" è la risposta fornita invece da chi, nei secoli, non ha desistito in tenera età dal porsi la suddetta domanda.

Lo scopo (attivo*) dell'esistenza è acquisire consapevolezza, comprendere. L'unica reale differenza tra un uomo ed un altro, sia esso ricco o povero, manager o minatore, sano o malato.
Da questo punto di vista l'interruzione del fluire autonomo degli eventi rappresenta, prima che riprendano a fluire in una qualche altra direzione, l'opportunità di comprendere e, talvolta, perfino di intervenire consapevolmente.

Che si tratti di opportunità ce lo insegna perfino l'etimologia, dal greco "krisis" - scelta, decisione - come pure l'accezione medica del termine: rapido mutamento, in bene o in male, del decorso di una malattia, decisivo per il decorso tanto verso la guarigione quanto verso la morte. Ce lo ricorda anche Pirsig nel romanzo citato, nel quale presenta quello che solitamente chiamiamo malattia/follia come in realtà la "Cura" alla vera malattia: la "normalità schizofrenica" vissuta abitualmente. Ovvero i momenti in cui pur avendo una vocina che (molto) in fondo ci dice che "non è tutto qui" facciamo il possibile per "dormire" comodi.

Questioni di punti di vista appunto, ovvero di scopi - la comodità o la consapevolezza - capaci di offrire, in caso di crisi, paura e disperazione o fiducia in una preziosa opportunità. Come appunto diceva Huxley: "La realtà non è ciò che ci accade ma ciò che noi facciamo con quel che ci accade"...


* scopo attivo è quello che contempla l'uomo - grammaticalmente - soggetto del conquistare la consapevolezza. In mancanza di ciò l'uomo non è tuttavia meramente "privo di scopo", ma solo privo di un suo scopo, è strumento delle forze che fanno si che le cose accadano. In metafora - e non più di tanto... - ha comunque sia lo scopo di concimare la terra. Scopo questo "passivo" cui adempierà anche in mancanza di ogni suo impegno...

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