Anni fa, troppi per ricordarmi i dettagli, lessi un interessante articolo di un antropologo su una tribù aborigena. I membri di questa tribù riscontravano una strana peculiarità: se venivano incarcerati invariabilmente si suicidavano nella loro cella. Per quanto contestabile, potrebbe sembrare un comportamento comprensibile in caso di ergastolo. Molto meno lo sarebbe però per pene di pochi giorni, alle quali tuttavia seguiva lo stesso macabro epilogo. Il fatto, nella prima metà del secolo scorso, attirò quindi gli studi di uno scienziato nel tentativo di comprenderne le cause.
Quello che emerse fu molto interessante. I membri di tale (come ho detto, non ricordo i dettagli ed i nomi appartengano purtroppo a questa categoria...) tribù non disponevano del concetto di futuro. Non poté essere chiarito come questo fenomeno avesse potuto verificarsi, eppure ciò emerse chiaramente da studi approfonditi. Pertanto, scambiando la condizione presente per eterna ed immutabile, la percezione della prigionia diveniva senza prospettiva alcuna, sconfortante, senza speranza ed indegna di essere vissuta. Perciò gli aborigeni si suicidavano.
Potrebbe sembrare un racconto di Borges o di Philip K. Dick, ma si tratta invece di ricordi tratti da un serissimo saggio di Lévi-Strauss (ehm, mi auguro che la precisazione sia inutile, ma chiaramente non sto parlando di quello dei Jeans...)
Prospettive dunque. In questo caso differenza tra la vita e la morte.
Devo invece a Fromm l'avere appreso una interessante caratteristica di una lingua che non parlo, lo spagnolo. "Ser" e "Estar" sono due verbi dall'uso nettamente distinto ma entrambi traducibili in italiano col verbo "Essere". Foneticamente, ed ancor più conoscendone il significato, si potrebbe obbiettare che "estar" equivalga a "stare". Eppure non sarebbe corretto poiché, a quanto mi riferiscono, in spagnolo la divisione è netta e rigida: il primo verbo, "Ser" si usa per condizioni permanenti (io sono alto un metro e settantacinque), il secondo "Estar" per condizioni momentanee (io sono malato). La distinzione non è esattamente una pignoleria poiché, PNL docet, col linguaggio creiamo la nostra percezione della realtà. Che percezione creeremmo quindi utilizzando inavvertitamente il verbo "ser" accanto a "prigioniero"...?
Ancora prospettive. In questo caso quelle che la citata PNL chiama "convinzioni autolimitanti". Le gabbie più grandi e sicure sono quelle della nostra mente. Sembra strano? Sarebbe stato interessante chiederlo ai citati aborigeni, sempre che, nel frattempo, non si siano estinti...
A questo punto però vale la pena una piccola digressione per evitare ingenue fallacie compositive.
Alcuni obiettano che non è vero che pensando nero mi creo una realtà nera, poiché non è vero che batterei in una gara motociclistica Valentino Rossi pensando di farlo. Si tenta ovvero una dimostrazione per assurdo tanto ingenua quanto fuori luogo (le dimostrazioni per assurdo sono efficaci solo all'interno di un sistema chiuso).
Altri invece deducono che poiché è vero che pensando nero mi creo una realtà nera, allora pensando di battere Valentino Rossi riuscirò a farlo. In questo caso assistiamo invece al puerile sillogismo tanto caro agli assertori del pensiero positivo.
Dov'è l'errore comune ad entrambi i punti di vista? Si potrebbe dire quello di "fare i conti senza l'oste".
Già, perché l'atteggiamento, positivo o negativo che sia, produrrà esclusivamente ciò che il soggetto avrà i mezzi per realizzare. Se ci saranno le risorse per vincere il campione in carica, ma anche solo per ottenere un appuntamento o per costruire un tavolo, allora l'atteggiamento le realizzerà, altrimenti non potrà mai farlo.
Ma allora perché sostengo che vedendo nero si produce l'infelicità? Beh, questo perché di risorse per essere infelici ne abbiamo in abbondanza: basta porre davanti allo sguardo con cui valutiamo la realtà un filtro scuro ed anche le cose più belle diventeranno immediatamente grigie.
Chiarita dunque l'importanza di allenarsi duramente per acquisire i mezzi utili a quanto ci interessa, possiamo tornare alla prospettiva. Poiché essa determinerà se questi mezzi produrranno o meno dei frutti, come pure se creeranno o meno delle tristi gabbie.
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