18 giu 2010

Essere e non Essere


"L'essere è; il non essere non è" sosteneva Parmenide nel quinto secolo avanti Cristo. Nel secolo successivo Aristotele formalizzerà quella che oggi chiamiamo logica classica. Gli effetti di ciò influenzeranno per millenni la storia del pensiero occidentale.
"Essere o non essere" si domanderà Amleto, implicitando in tale universale affermazione, la necessità di assumere una di queste opposte posizioni.

Solo in anni recenti la fisica torna a nutrire il dubbio, ormai sopito nelle nostre menti, che l'essere sia e non sia allo stesso tempo.
Certo siamo - e siamo stati, in questi secoli - ancora in grado di tradurre "panta rei" con "tutto scorre", conosciamo i frammenti di Eraclito; così come ci hanno insegnato cosa rappresenti il simbolo del Tao. Forse conosciamo perfino l'Advaita Vedanta.
Eppure queste conoscenze restano in superficie, quello che è compenetrato a fondo nella nostra visione del mondo è una profonda dualità, una necessità di scelta tra due opposti dicotomici: l'essere ed il non essere.
Non si tratta di una mera necessità intellettuale bensì di una profonda impellenza, di un'ancora di salvezza nei confronti di un vuoto troppo mutevole per essere accettato.

Un conto è leggere che nel mondo infinitamente piccolo dei quanti la materia possa - letteralmente - nascere dal nulla e nel nulla svanire, che l'atto stesso di osservare muti quanto osservato, che sia impossibile determinare con precisione posizione e velocità allo stesso tempo. Ben altra cosa è realizzare che in questa realtà viviamo.
(La fisica contemporanea è - purtroppo - anche il "condimento" più usato da newager e nuove religioni. Ma di condimento appunto si tratta: la sostanza, in tali casi, non viene minimamente incontrata ed i concetti assumono funzione puramente decorativa. O, peggio ancora, la dualità permane ove comoda per lasciare posto alla vaghezza dove non comoda: schizofrenia...)

Forse è utile approfondire cosa significhi per la nostra percezione quotidiana ritenere che l'essere sia ed il non essere non sia. Perché, che noi lo comprendiamo o meno, perfino che abbiamo o meno interesse in ciò (anzi, in tale caso ancora più potentemente....), tale sentenza così profondamente radicata crea la nostra visione del mondo. Ovvero cataloghiamo tutto come "bianco" o "nero"; dividiamo costantemente in categorie opposte ed incompatibili.
Tanto siamo a ciò abituati che tale stesso atto di scissione ci da sicurezza.
Aborriamo anche la sola ipotesi che possa essere diversamente poiché, in mancanza dei confini così marcati, tutto ci appare vuoto. L'atavica paura del vuoto ci impedisce spesso anche solo di ipotizzarlo...

Essere e non essere allo stesso tempo: paradosso! L'effetto più temuto dalla logica occidentale. Ciò che va contro (parà) l'opinione comune (doxa) suscita in noi terrore. Eppure è placando tale paura che le più grandi menti della storia hanno saputo riconoscere nei paradossi profonde opportunità di crescita.
Diversamente da noi i koan dello Zen ricercano il paradosso. Sfruttano quella che è stata definita logica paradossale per raggiungere una visione non scissa, e pertanto più reale, che è talvolta chiamata illuminazione.

Alcuni koan appaiono insondabili, altri relativamente facili da spiegare. In entrambi casi tuttavia, come in ogni evento della vita, il difficile non è capire superficialmente ma comprendere (prendere con), fare proprio ad un livello profondo.

La difficoltà è anche solo scalfire quella radicata abitudine a tracciare rassicuranti confini nell'interpretazione della realtà. Difficile è affrontare la paura, sempre foriera di disgrazie. Difficile è lasciare qualche spazio incolto dove possano rifiorire i pascoli, scorrere i ruscelli, tornare a volare le farfalle.

Difficile, ma auspicabile. Quantomeno io per me lo spero.

2 commenti:

  1. Verrebbe di farti un augurio, ma non mi pare che tu ne abbia bisogno. ;-)

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