Di Benedetto Tangocci*, Flaminia Elettra De Rossi*, Marina Thellung*, Rosanna Camerlingo*, Patrizia Scanu* e Marina Bonadeni*.
*Firmatari https://comunicatopsi.org/, membri attivi del gruppo di lavoro Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia.
“Chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una volta sola.”
Paolo Borsellino
La citazione del grande magistrato italiano (parafrasi di un passo del Giulio Cesare di Shakespeare) racchiude in due poetiche affermazioni l’alternativa tra il lasciarsi sopraffare dalla paura e il riuscire superarne il potere paralizzante. Naturalmente la morte quotidiana si colloca su un piano diverso rispetto alla morte fisica, nondimeno il valore ad essa attribuito non è sentito affatto inferiore. Molte altre citazioni avrebbero potuto aprire questo articolo con analoga efficacia, citazioni tratte dalla narrativa, dal cinema o da grandi biografie, come in questo caso. Ma che cosa ha da dire a proposito la psicologia, che cosa sappiamo sulla qualità della vita conseguente al vivere nella paura oppure – nelle parole di Amleto – “to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them”?
La psicologia ha molto da dire, e molto ha detto, sulla paura, sullo stato ansiogeno conseguente, sulle fobie e sulle conseguenze a lungo termine di un evento traumatico (PTSD). Sappiamo che la paura detiene un’importante funzione evolutiva, ci allerta rispetto a un pericolo e attiva rapidamente le risorse per fronteggiarlo immediatamente (fight, flight, or freeze). Secondo il noto neurobiologo Joseph LeDoux (1996), uno stimolo percettivo (ad esempio una canna da irrigazione in giardino) raggiunge il talamo che smista il segnale “grezzo” sia all’amigdala che alla corteccia sensoria. La prima via è rapida, ma imprecisa e se lo stimolo può sembrare pericoloso (ad esempio un serpente) mette immediatamente in allerta, suscitando una rapida risposta. In alcuni casi una frazione di secondo può fare la differenza. La seconda via è più lenta, ma elabora accuratamente il segnale, e riconoscendolo correttamente (no, è solo una canna da irrigazione), può interrompere lo stato di allerta, se riconosciuto come improprio. La paura ci è quindi necessaria in limitate e specifiche situazioni. Sappiamo tuttavia anche che se l’attivazione indotta dalla paura permane a lungo termine, o diviene cronica, non solo non è più adattiva, ma comporta numerosi effetti negativi, sia psicologici che somatici. La risposta emotiva è biologicamente funzionale unicamente di fronte ad un pericolo immediato, urgente e di breve durata.
Nondimeno la branca della psicologia che si occupa delle strategie di persuasione raccomanda come altamente funzionale per favorire l’adesione a comportamenti socialmente desiderati, il ricorso a tecniche che sfruttano l’induzione alla paura, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?
Quanto invece alla capacità di gestire e superare la paura, che comunemente chiamiamo “coraggio”, che cosa ne sappiamo? Il termine è facilmente comprensibile a tutti, sebbene come per molte parole di uso comune non sia così facile offrirne una definizione. Già nel Lachete, Platone fa chiedere a Socrate, “Prova dunque a dire cos’è il coraggio?”, iniziando così la ricerca di una definizione che il dialogo non arriva a formulare, sebbene senta come essenziale, poiché solo “dopo potremo indagare come darlo ai giovani, per quanto possibile, attraverso l’esercizio e lo studio”. Tuttavia una definizione sufficientemente condivisa (che sarà argomento del prossimo paragrafo) dovrà attendere ancora molti secoli. Malgrado ciò il coraggio è stato centrale in molte influenti visioni: viene considerato da Platone nella Repubblica come caratteristica essenziale della classe dei guardiani; da Aristotele nell’Etica Nicomachea come prima delle virtù etiche; e successivamente, col nome di Fortezza (Fortitudo), annoverato tra le virtù cardinali da Sant’Ambrogio, da Sant’Agostino e da Tommaso d’Aquino.
Il coraggio nella psicologia
Solo recentemente la psicologia si è occupata di coraggio, soprattutto grazie ad esponenti della cosiddetta “Psicologia Positiva”. Come ai tempi di Socrate, si è riproposta così la questione di trovare una definizione del costrutto. Tra le molte, tra le più adottate, e ad avviso di chi scrive tra le più convincenti definizioni di coraggio, troviamo: “(a) a willful, intentional act, (b) executed after mindful deliberation, (c) involving objective substantial risk to the actor, (d) primarily motivated to bring about a noble good or worthy end, (e) despite, perhaps, the presence of the emotion of fear.” (Rate et al., 2007, 95).
Riguardo ai punti (a) e (b), altri autori (Pury & Starkey, 2010) distinguono tra una dimensione di stato, che come nella definizione appena riportata giunge al coraggio attraverso un processo consapevole, e una dimensione di tratto di personalità, più costante e inconsapevole. Tuttavia, e sebbene indubbiamente esistano persone più inclini ad atti di coraggio, il costrutto così definito è risultato vago e poco utile alla ricerca, che ha perciò prevalentemente preferito guardare al coraggio come a un processo.
Relativamente al punto (e), Rachman (2010) afferma che “approaching a potentially dangerous situation in the absence of subjective and physiological indices of fear is regarded as fearlessness, not courage.” (ivi, 93). Tuttavia la mancanza di paura può essere congenita; può essere pura incoscienza; ma può anche essere conquistata tramite ripetuti atti di coraggio in situazioni analoghe. L‘autore, studiando professionalità esposte a forti rischi, conclude che “yes, it is possible for people to attain the noble quality of courage by study and training” (ivi, 105) e che “the successful practice of courageous behavior leads to a decrease in subjective fear and finally to a state of fearlessness.” (ivi, 106). Pertanto la precisazione di Rate che la paura può essere, o meno, presente, appare preferibile ad altre definizioni che ne sottolineano invece la necessaria presenza.
Più delicata è la parte (d) della precedente definizione. Infatti la percezione di “noble good or worthy end” è altamente soggettiva e talvolta opinabile. A titolo di esempio:
running into a burning building to save a child is courageous; running into a burning building to save a favorite computer is probably not. What about running into a burning building to save a pet? The appraised courageousness of this action probably depends on the observer’s opinion about pets. (Pury & Starkey, 2010, 83)
La percezione di un atto di coraggio o di codardia può tuttavia ulteriormente essere complicata. Supponiamo, ad esempio, di avere ricevuto la diagnosi di un grave tumore ad uno stato avanzato e il suggerimento di intraprendere un percorso chemioterapico che potrebbe ritardare il decesso. Immaginiamo uno scenario in cui dover scegliere tra la prospettiva di un anno di vita in cui dover convivere con frequenti ospedalizzazioni e forti nausee o quella di pochi mesi trascorsi nel luogo che più ci aggrada, liberi da effetti collaterali. Quale scelta sarebbe coraggiosa e quale no? La risposta è inevitabilmente soggettiva. Probabilmente un materialista riterrebbe codardia sottrarsi alle terapie e coraggio affrontarle. Altri tuttavia potrebbero ritenere codardia tentare di prolungare la mera esistenza fisica a discapito della qualità della vita da loro ritenuta prioritaria.
Rimanendo strettamente legati alla definizione di coraggio avrebbero entrambi ragione, dal loro punto di vista. Come nell’esempio dell’edificio in fiamme, siamo tutti facilmente concordi che rischiare la vita per salvare un bambino sia un atto coraggioso, come pure che rischiarla per salvare un computer sia folle; ma rischiarla per salvare un animale è coraggioso o folle? E non farlo è saggio o vile? Poiché la risposta è soggettiva, lo è inevitabilmente anche la percezione di chi agisce, i cui vissuti soggettivi di coraggio o di codardia sono riconoscibili come tali unicamente da chi ne condivide i valori. Se dall’esterno è quindi sempre possibile il fraintendimento del vissuto soggettivo, per l’individuo è tuttavia più semplice distinguere tra scelte effettuate seguendo i suggerimenti della paura o scelte compiute per impulso del coraggio. Lasciamo quindi all’individuo il compito di giudicare se stesso con sincerità e passiamo a valutare gli esiti del vivere consigliati dalla paura o dal coraggio.
Conseguenze della paura o del coraggio
Come già scritto nell’introduzione, la paura è un’emozione necessaria alla rapida risposta in una situazione di pericolo immediato, ma altamente dannosa se prolungata nel tempo. Sulle conseguenze, sia psicologiche che fisiche, dello stress provocato da stati di paura intensi e/o duraturi sono stati scritti migliaia di libri e di articoli. Tra i possibili esiti psicologici troviamo lo sviluppo di depressioni, ansie, fobie, attacchi di panico, disturbo da stress post traumatico; e per ognuno di questi aspetti esiste una nutrita letteratura a riguardo. Quanto ai possibili esiti somatici, occorre innanzitutto osservare che, sebbene l’ipotesi che uno stato emotivo possa influenzare dinamiche fisiologiche sia stata osteggiata per anni, e non sia ancora stata pienamente recepita dai medici meno aggiornati, la ricerca ne ha chiaramente dimostrato la validità oramai da decenni. Con la nascita della PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia), disciplina che indaga le interazioni tra psiche, sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono arrivate le prime verifiche sperimentali, e ad oggi si possono considerare appurati almeno due principali percorsi biologici tra il vissuto psicologico e la risposta somatica (Ader, 2006): l’asse HPA (hypothalamic–pituitary-adrenal – ipotalamo-ipofisi-corticale del surrene), che stimola la produzione di cortisolo da parte della corticale del surrene; ed il percorso SAM (sympathetic-adrenal medullary – simpatico-adrenomidollare) che lega il locus coeruleus all’attività del sistema neurovegetativo simpatico e, tramite essa, alla produzione di catecolamine da parte della midollare del surrene (Kern, Rohleder, Eisenhofer, Lange, & Ziemssen, 2014). Stati particolarmente intensi o prolungati di paura comportano le sopracitate reazioni fisiologiche da stress e col tempo l’iperattivazione della produzione ormonale può portare a patologie anche gravi.
Lo studio degli effetti del coraggio sulla qualità della vita è invece ancora agli inizi e consta di pochi studi. Tra questi si annoverano principalmente quelli condotti nell’ambito dell’applicazione della Psicologia Positiva al mondo del lavoro, molti dei quali concordano nel concludere che “courage was found to mediate the relationship between psychological capital and flourishing [letteralmente “fiorire”: prosperare]” (Santisi et al., 2020, 9) e che “this is probably linked to the fact that courage was intrinsically constituted and aimed at a noble purpose, and this characteristic has a powerful effect on flourishing” (ibidem). Una ricerca sulla relazione tra coraggio, benessere psicologico e sintomi somatici nella popolazione generale (Keller, 2016) rileva che “higher courage scores were found to predict lower somatic symptom scores” (ivi, 62) e che “courage was shown to significantly predict PWB [Psychological Well-being]” (ivi, 64). Non ci risultano studi psicologici più approfonditi sul tema. Ciò nonostante, poiché il coraggio è, per definizione, un atto intenzionale che comporta per chi lo esegue un rischio oggettivo e sostanziale, implica necessariamente la capacità di gestione della paura, se presente, e pertanto sembra lecito affermare che il coraggio sia in grado di proteggere dai rischi sopra esposti connessi con uno stato di paura particolarmente intenso o prolungato. Infine, per quanto non ci risulta siano stati studiati gli effetti derivanti dal vivere – o anche solo dal leggere – sensazioni analoghe a quelle trasmesse dalla frase in epigrafe a questo testo, credo, e spero, che ognuno abbia provato almeno una volta in vita sua l’emozione correlata e sia in grado di ricordarne la forza pervasiva che ne deriva, anche senza doverne leggere in una ricerca scientifica.
Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia
Nel particolare momento storico legato alla primavera/estate 2020, in Italia, un gruppo di colleghi psicologi e psichiatri ha sentito il bisogno di sottoscrivere un comunicato di allarme (https://comunicatopsi.org/) relativo gli aspetti psicologici della gestione dell’emergenza in atto. Successivamente alcuni di noi hanno ritenuto necessario dare vita ad un gruppo che coordinasse attivamente le iniziative scaturite da tale analisi, che si è dato il nome di Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia. L’alternativa tra lasciarsi sopraffare dalla paura o coltivare il coraggio è tematica da noi sentita come centrale. Riteniamo che oggi più che mai il coraggio sia indispensabile per recuperare la serenità e la fiducia in sé e negli altri.
Per la sua etimologia “coraggio” rimanda al cuore. Solo chi ama ha coraggio. Per questo l’amore è l’antidoto alla paura. “Coraggio!” è anche una comune esortazione a proseguire nonostante le difficoltà, i piccoli timori o i grandi sconforti, a confrontarsi con i propri limiti e a crescere ogni giorno di più, a rincuorarsi. Per fiorire infatti occorre innanzitutto trovare il cuore di uscire dalla propria cosiddetta “comfort zone”, dove le comodità e le sicurezze rischiano di essere al contempo mura via via sempre più soffocanti. A volte a tal punto che per tenere fuori i pericoli ci troviamo a respirare più anidride carbonica che ossigeno, come avviene indossando le mascherine. Rinunciare ai più elementari rapporti umani sembra a molti indispensabile per proteggersi, forse perché come scriveva Michele Lauro (2016) “il marketing della paura ha un ufficio stampa molto efficiente: serve per aumentare il consenso, esercitare il controllo, assumere il potere”, e così troppo facilmente rischia di farci dimenticare che “il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcosa di più importante della paura” (frase attribuita a Ambrose Redmoon).
Poiché il coraggio è avere cuore, ma non solo: il coraggio è lanciare il cuore oltre l’ostacolo, quando non si sa cosa ci sarà dopo. Il coraggio sarà dire “No!” quando vorranno zittire la nostra umanità; quando vorranno far sparire la coscienza come un ornamento inutile. Il coraggio sarà pagare un prezzo, se ci sarà da pagarlo, per un mondo migliore che non vedremo. Il coraggio è quello di Antigone che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del re di Tebe che l’ha vietata con un decreto. Per la sua disobbedienza morirà murata viva in una grotta, ma per Antigone la legge divina è superiore alle leggi umane. Oggi la chiameremmo “disobbedienza civile”, dal titolo del celebre saggio di Herry David Thoreau che ha ispirato, tra gli altri, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, o Nelson Mandela. A ben vedere si potrebbe affermare che ogni conquista civile, dall’abolizione della schiavitù al suffragio universale, è in debito verso individui che hanno avuto il coraggio di sfidare leggi umane accettate dai più, ma da loro ritenute inique in virtù di principi considerati superiori, divini o naturali che siano.
Inoltre, accanto al coraggio dei grandi leader che hanno fatto la storia e combattuto per i diritti civili, ci sono forme di coraggio “più silenziose”, meno evidenti, ma altrettanto importanti. Il coraggio di non arrendersi e continuare a sperare. Il coraggio di non fermarsi alla superficie e di approfondire tutto, accettando in tal modo di cambiare anche se stessi. Il coraggio di affrontare la solitudine di coloro che percorrono territori ancora inesplorati. Il coraggio di chi addomestica la paura accogliendo il prossimo con amore. Il coraggio di chi sente la responsabilità verso i propri ideali, verso i propri figli e verso il mondo che un domani lasceremo loro. Non vogliamo risvegliarci un giorno e scoprire che ci è mancato il coraggio necessario quando era ancora possibile fare tutto ciò, poiché crediamo che – come scrisse il poeta Robert Frost in Servant to Servants – “the best way out is always through”. Oggi occorre infatti soprattutto il coraggio della consapevolezza che ripetere a se stessi il mantra “andrà tutto bene” è solo una forma di rassicurazione, mentre la posta in gioco è proprio la qualità della vita, più importante della stessa sopravvivenza. Questa consapevolezza è necessaria giacché – come nel nome della celebre acquaforte di Francisco Goya – “il sonno della ragione genera mostri”, e questo non è il momento di obbedire e “restare a casa”, bensì quello di svegliarsi, attivarsi e riunirsi.
Conclusioni
Gli studi sul coraggio come costrutto psicologico sono ancora agli inizi e ci auguriamo di avere contribuito a fare il punto della situazione. Tuttavia, il coraggio è virtù morale da molti secoli, centrale e trasversale alla religione, all’arte, alla letteratura e al sentire comune. Coltivarlo protegge dai pericoli legati al vivere prolungati stati di paura e migliora la qualità della vita. Purtroppo invece, come afferma in una recente intervista (Amorosi, 2020) Stefano Fais, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità, “stanno gestendo il Coronavirus con la paura. Ma la paura è una malattia che indebolisce e rende più fragili. Così masse di persone vengono rese facilmente prede proprio dei virus”. Il distanziamento sociale e il timore del prossimo percepito come possibile untore comportano pericolose conseguenze psichiche e psicosomatiche che nel migliore dei casi sono state completamente ignorate.
Oramai da vari decenni sappiamo che il benessere psicofisico dipende in gran parte dalla qualità delle relazioni interpersonali. Innumerevoli studi, svolti da autori di varie discipline, lo hanno ampiamente dimostrato e interi orientamenti psicoterapeutici, come la Psicanalisi Relazionale o la Psicoterapia Interpersonale, basano l’efficacia dei loro interventi su questa consapevolezza. Non riteniamo pertanto necessario approfondire questa conclamata evidenza, riguardo la quale rimandiamo all’amplissima letteratura esistente. Peraltro, che la qualità delle relazioni sia parte imprescindibile di quella che chiamiamo “qualità della vita”, è risaputo anche in ambiti non psicologici, e da ben prima che la psicologia lo abbia dimostrato. Azioni un tempo quotidiane, come sorridere a viso scoperto, stringersi la mano, abbracciarsi o accogliere l’altro a una distanza di prossimità, sono socialmente, evolutivamente e psichicamente così importanti da rendere necessario che gli effetti della loro soppressione siano dettagliatamente analizzati in un prossimo lavoro.
Qui desideriamo concludere evocando l’immagine del celebre dipinto La Danse II di Henri Matisse, e riportando il commento che l’opera ha suscitato in Derio Olivero (2019), vescovo di Pinerolo: “L’essenza della vita sta nel ‘tenerci per mano’, sta nel creare un cerchio. Tutto il resto scompare. Sotto questo cielo, sulla nostra terra, la cosa più essenziale è riuscire a prenderci per mano.” (ivi, p. 18). Non sappiamo se in questi mesi il vescovo abbia mutato opinione o se adesso riscriverebbe la stessa frase. Sappiamo però che per noi, oggi, è quanto mai urgente riscoprire questa dimensione e soppesare con il necessario coraggio che cosa stiamo perdendo in cambio dell’illusione della sicurezza. Per non correre il rischio di cui ci ha avvertiti Benjamin Franklin (1755): “Those who would give up essential Liberty, to purchase a little temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety”. Di questo coraggio abbiamo urgente bisogno, per la nostra salute individuale, per quella della società in cui viviamo e per quella della società che lasceremo ai nostri figli.
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Riferimenti Bibliografici
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